
Se siete alla ricerca dell’ultima novità, sicuramente questa serie non la rappresenta, essendo stata trasmessa per la prima volta nel 2011, tuttavia si tratta di un gioiello che, personalmente, ritengo meritevole di una riscoperta.
Da questa serie sono scaturiti ben cinque differenti remake, tutti a mio giudizio decisamente inferiori all’originale, sia per ambientazione che per atmosfera: si tratta dello statunitense The Bridge (localizzato per esigenze narrative al confine col messico), del franco-britannico The Tunnel, del russo-estone The Bridge, del malese The Bridge e dell’austro tedesco Pagan Peak.
Una proliferazione che se da una parte rischia di ingenerare confusione nel pubblico, dall’altra testimonia la bontà della premessa narrativa, sicuramente intrigante.
Le origini
La serie originale è una coproduzione dano-svedese e questo si manifesta fin dal titolo, dato che Bron e Broen significano entrambe “ponte”, nelle due lingue.
Un titolo che allude sia alla alleanza produttiva tra i due paesi, collegati proprio dal ponte di Øresund, sia alla collaborazione tra i due protagonisti, Sara Norén e Martin Rohde.
I due sono splendidamente caratterizzati da Kim Bodnia (Stagione 1 e 2), che ricordiamo dai tempi dell’ottimo Thriller “Il guardiano di notte” di Ole Bornedal (che ne ha diretto anche il remake con Ewan McGregor), e soprattutto da Sofia Hein, che qui ci regala una interpretazione memorabile.
Nella terza e nella quarta stagione è invece Henrik Sabroe (interpretato da Thure Lindhardt), ad affiancare la protagonista nelle indagini.

Il ponte, simbolo ricorrente della serie, è anche la scena del delitto dell’indagine da cui la prima stagione prende spunto, dato che proprio al centro del ponte, alle coordinate esatte che segnano il confine tra i due paesi, viene ritrovato un cadavere tagliato a metà, che si scoprirà poi ricavato dalla metà di due diverse donne, una svedese e una danese.
Dall’incubo burocratico in cui piombano le autorità, chiamate a decidere su chi sia titolare delle indagini in un caso tanto complesso, nasce una collaborazione forzata tra due forze di polizia, due paesi e due protagonisti profondamente diversi.

Sara Norén è una detective autistica ad alta funzionalità, dotata di una mente geniale ma altrettanto limitata dalla sua incapacità di interpretare le emozioni altrui. Martin Rohde nelle prime due stagioni e Henrik Sabroe nelle due conclusive sono entrambi individui fortemente emotivi, con tendenze autodistruttive, incapaci di gestire la propria rabbia.
In questo rapporto il dolore, l’incidente, la tragedia, che Sara Norén come la sua interprete porta fin nel volto marchiato da una singolare cicatrice, accomuna tutti e spinge ad una riflessione sul trauma come valore fondante, e forse limite, di tutto il genere noir.
Sara Norén è un personaggio a cui lo spettatore si affeziona immediatamente, incapace come è di qualsiasi mediazione o menzogna, unicamente impegnata a risolvere il compito che le viene assegnato. Facile cogliere una associazione con personaggi simili, fra tutti forse The good doctor dell’omonima serie, ma qui il registro è realistico e il mondo che circonda la detective non altrettanto disposto ad accoglierla.
Aspetti tecnici
La regia è solida, snella, attenta, funzionale al punto di non farsi notare, cioè ottima.
La fotografia predilige i toni del blu e del giallo, riportando graficamente una estetica che identifica immediatamente l’ambientazione.
La scelta della colonna sonora è altrettanto azzeccata e il tema principale, Hollow Talk, è di una bellezza struggente.
Il tema principale
In conclusione
Tutta la serie si caratterizza anche per la quasi totale assenza di sparatorie, di “azione” da blockbuster hollywoodiano, ambientata come è in un mondo in cui anche solo estrarre la pistola di ordinanza dalla fondina è una decisione grave, che sarà valutata dai propri supervisori.
I casi si risolvono a colpi di ingegno, razionalità e intuito. Inseguimenti e sparatorie sono lasciati ad altri paesi e altri climi, dove il sangue è più caldo e il ricorso alle armi, e alla forza letale, così disinvolto da rappresentare un problema in sé.
Dopo la splendida prima stagione, nella seconda la serie perde un po’ di mordente complice, pare, un problema tra Kim Bodnia e la produzione (che si concluderà con il suo allontanamento) e anche una trama che prova a deviare dal tema classico degli omicidi per impelagarsi in una storia di terrorismo meno adatta ai protagonisti.

Con la terza e la quarta stagione, però, la serie riprende ritmo, anche grazie alla introduzione di un nuovo personaggio, Henrik Sabroe, a cui viene affidato il compito di sostituire Rohde, nel frattempo finito in prigione. Henrik, che dell’ex collega condivide la nazionalità, risulta immediatamente assai più tormentato e oscuro del pur non serafico Martin.
Tra abuso di farmaci, allucinazioni e un passato che torna a tormentarlo, la serie decolla e ci riporta sul terreno solido del thriller più classico, facendosi decisamente apprezzare.
In definitiva, una serie imperdibile per ogni appassionato del genere, da recuperare ad ogni costo in streaming (ma non è facile) o nel cofanetto internazionale.
