
Roberto Carboni è autore di romanzi e insegnante di scrittura creativa.
E’ nato a Bologna, città che fa da sfondo a tutti i suoi romanzi, e come solo può chi respira l’anima di una città, amandola, odiandola, vivendola in tutti i suoi colori e i suoi segreti, riesce a farne sentire l’essenza anche a chi, in quella città, non ci è mai stato.
Appassionato studioso di scacchi e innamorato cercatore delle chiavi di lettura del comportamento umano, inizia a scrivere nel 2006, quasi per gioco, diventando in breve tempo un maestro raffinato del linguaggio nella costruzione del suo stile narrativo.
Ipnotico, magnetico, autentico, il suo uso seducente delle parole trascina il lettore fin dentro le psicopatie e le ossessioni dei suoi personaggi, ignari a volte essi stessi dei viaggi di efferatezza e follia a cui possono giungere.
I lettori di Roberto viaggiano insieme a lui e insieme ai suoi “mostri”.
E l’ultimo dei suoi viaggi, pubblicato per i tipi di Newton Compton, è Il segreto dell’antiquario”, noir ricco di suspense, perfettamente congegnato, dal ritmo serrato e impellente, dove tutti i personaggi, anche quelli secondari, sono ben definiti e strutturati senza aggiungere nulla di superfluo.
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Roberto ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune nostre domande.
Il segreto dell’antiquario è un viaggio nella mente di un serial killer affetto da schizofrenia. La descrizione dei comportamenti e degli stati d’animo è molto efficace. Vuoi raccontarci come hai condotto le ricerche?
Assorbendo, letteralmente, questo terribile disturbo. Cercando di capirlo, com-prenderlo (abbracciarlo), assorbirlo, di sentirlo in me. Le ricerche vanno bene per gli scienziati, i creativi invece devono immergersi, soffrire e gioire. Emozionarsi per emozionare.
Siamo invasati che invasano.
Solo così, per il lettore, un romanzo potrà trasformarsi nella magia di un’esperienza reale.
E vivrà le pagine come se la storia avesse davvero fatto parte della sua esistenza. Sentirà qualcosa rovistare dentro di sé, anche e soprattutto a lettura ultimata. Un bel romanzo non termina con la parola fine.
Dopo aver gettato un sasso in un lago che era placido fino al nostro arrivo, le acque impiegano tempo per calmarsi.
L’assassino prima di uccidere si introduce nelle case delle vittime più volte, ne indossa gli abiti, fruga tra gli oggetti, mangia i loro cibi. Sembra quasi che si intrufoli nelle loro vite per assaggiare la normalità a lui negata.
Cosa ti ha ispirato questo aspetto della trama?
Non avresti potuto descriverlo meglio.
Elia, il protagonista, aspira alla famiglia che non ha mai avuto. All’amore, alla fusione con quelle che lui chiama “le mie crisalidi”. Nessuno sa da dove arrivino le idee.
Mi sentivo attratto dall’esplorare questa immensa solitudine, e ancor di più gli stratagemmi messi in atto dal protagonista per vincere l’angoscia che prova.
Non mi interessa creare personaggi, ma persone.
Elia è un musicista di talento, ha uno spiccato gusto per l’arte, la bellezza, il cibo. Uccide con crudele efferatezza, eppure è capace di profonda tenerezza nei riguardi delle poche persone a cui è affezionato. Raffinatezza e crudeltà, affetto e malvagità.
Secondo te, come possono convivere questi aspetti nello stesso individuo?
Nella realtà convivono, eccome. Sono le incongruenze cognitivo-comportamentali. Nella finzione, a volte, meno. Soprattutto nella finzione scadente, quella dei personaggi bidimensionali e preconfezionati, che applica sterilmente le regole della scrittura creativa e della sceneggiatura.
L’essere umano è pieno di sfaccettature. A volte pieghe, a volte crepacci quasi impossibili da esplorare fino in fondo. D’altronde, le vette sono alte, ma l’abisso è infinito. Io mi occupo di tutti gli aspetti. Non solo delle Ombre. Se esiste un’ombra, allora ci sarà anche un corpo e una luce. L’Ombra la capisci solo prendendo in esame quell’intero sistema.
Ombra-corpo-luce che normalmente identifichiamo con “essere umano”.
Madame Thérèse è una medium alla ricerca di credibilità nel mondo della criminologia. Bologna è una città che nasconde segreti e misteri, con un’aura di esoterismo. In provincia di Bologna il 2 aprile 1978 alcuni accademici democristiani parteciparono a una seduta spiritica e dichiararono di aver ricevuto dagli spiriti indicazioni sul luogo in cui veniva tenuto prigioniero Moro.
Quanto Bologna ti ha ispirato per creare questo personaggio?
Bologna è la mia città.
Nel giallo, la città è l’involucro che contiene l’enigma; nel noir la città è la matrice stessa che genera la storia. Il medesimo giallo potrebbe essere ambientato quasi ovunque: ciò che conta di solito è l’indagine (l’ambientazione colora, come si dice: fa da sfondo). Ma ogni luogo genera invece un noir unico e irripetibile.
Perché mentre al giallo interessa la meccanica dell’omicidio, al noir interessa la dinamica che ha generato la de-generazione. E questa dinamica proviene anche dalla natura stessa della città.
Semplificando, il meccanismo di un giallo ambientato a Bologna potrebbe essere simile a quello ambientato a Milano. Ma i noir hanno pochi punti di contatto con cugini ambientati in altre città. Il noir non è un genere, ma un calderone che ribolle della pulsione umana. Pulsione anche sociale, sebbene io lo interpreti quasi come forma di isolamento. Ma, se esiste l’evitamento sociale, ovviamente esisterà una società.
E qui torniamo al concetto di descrizione ampia: Ombra, corpo e luce.
Nel romanzo citi un brano della poesia di Guido Gozzano “L’amico delle crisalidi”. Mi ha fatto pensare al lepidottero de “Il silenzio degli innocenti”. Elia ha qualche caratteristica comune a Hannibal Lecter, è un uomo colto e raffinato per cui il delitto è funzionale ad esaudire un bisogno, così come per Elia, che usa l’omicidio come una sorta di psicofarmaco. Entrambi sono affetti da una deformazione a una mano. Uno è schizofrenico, l’altro antropofago.
I difetti fisici sono una metafora della deviazione morale che li induce a uccidere? E la crisalide, il lepidottero, simboleggiano la ricerca di un mutamento attraverso il delitto?
Gozzano è il mio poeta preferito. Per me, il primo narratore moderno. Scriveva ancora in endecasillabi e settenari rimati, ma i temi erano frivoli e tragici al tempo stesso.
Elia in realtà non è affatto un serial killer. Lo è se con S.K. intendiamo un uccisore seriale. Ma normalmente i S.K. uccidono per “elevarsi”, e sentirsi onnipotenti.
Elia, al contrario, uccide per “sottrazione”, quando capisce che soccomberebbe alle proprie pulsioni. Quindi, per Elia l’omicidio è una sorta di fallimento, che serve a liberarsi dall’enormità della follia, e riprendere a vivere una vita il più possibile normale.
Gli omicidi sono sacrifici liberatori arcaici e altamente simbolici. Sacrifica le sue adorate crisalidi per calmare gli dei folli che lo abitano. Per sfiorare una momentanea tranquillità, normalità, creatività. Fino a quando un nuovo ciclo di smanie si impossessa di lui.
Una delle madri adottive di Elia si chiama Malgherita, per un errore dell’anagrafe. Un’imperfezione che mi ha incuriosito, forse perché sono attratta da tutto ciò che è imperfetto. Per quale motivo hai deciso di storpiarle il nome?
Perché anche questo è umano. Perché mia moglie si chiama Margherita, e io ero il suo Maestro nel laboratorio di scrittura creativa (che Bulgakov mi perdoni per l’affronto).
Perché, come hai scritto tu, siamo attratti dalle de-formazioni, che possono essere la scintilla per la de-generazione. E poi, perché Malgherita funzionava, spiazzava perfino gli editor che mi segnavano (con giusta ragione) il nome in rosso, fino a quando non capivano che si trattava di una storpiatura voluta.
Una volta chiesero a Duke Ellington come facesse a capire se un’armonia azzardata fosse utilizzabile nella composizione di un brano. Lui rispose che ascoltava come “suonava” il pezzo, e se suonava bene, allora si poteva usare.
Malgherita suonava bene; ed Elia, pure.
Permettici una domanda di rito. A cosa stai lavorando ora?
Ho terminato la riscrittura del romanzo successivo. Un gotico Padano ambientato nella Bassa degli anni Settanta. Ora mi aspettano le revisioni, il lavoro che preferisco perché mi
piace restare giorni sulla stessa pagina cercando le parole migliori, affilando le frasi, corteggiando i lettori.
Terminata la trama, si inizia a dipingere!
Se dovessi indicare tre parole che ti rappresentano, quali sarebbero?
Ossessivo, ossessivo e ossessivo. Naturalmente. Non è vero, mi piace fare lo sciocco. Ma si sa, gli scrittori sono gli unici bugiardi sinceri. Potrete mai perdonarmi?
Se dovessi scegliere tre cose di cui non potresti mai fare a meno, ovviamente escludendo la scrittura, quali sarebbero?
Cose o anche persone, immagino. La mia famiglia. Poi la lettura e lo studio degli esseri umani, ma in generale tutto ciò che mi crea piacere. Amo stare bene. Ho un serio disturbo allegro di personalità.
Prima di salutarci e anzi, proprio per inaugurare un saluto di eccezione, che messaggio o augurio ti piacerebbe lasciare ai nostri lettori?
Spero riusciate a essere liberi. Nella nostra società la sospensione del giudizio è riservata quasi solo agli artisti. Spero di cuore che riusciate ad abbassare il vostro freno a mano. La vita vi sembrerà completamente differente, con l’ebrezza nello stomaco. E non lo dice un uomo qualunque, ma il Maestro Elia Morosini Arconati.
Ci vediamo nel buio
ThrillerLife ringrazia Roberto Carboni
a cura di Monica Pedretti e Alessandra Panzini