
Beth e Tom Hardcastle sono la coppia perfetta. Tutto il quartiere li invidia: il loro matrimonio sembra una perpetua luna di miele, la casa che possiedono è splendida e hanno una figlia adorabile. Niente sembra essere in grado di incrinare la felicità della loro famiglia, fino al giorno in cui suona il campanello e, quando Beth va ad aprire, si trova davanti la polizia. Tom è stranamente in ritardo dal lavoro e sua moglie teme il peggio. Ma, nonostante gli attimi di panico, Beth è lontana dall’immaginare la verità… Perché il peggio va oltre ogni immaginazione. Gli agenti sostengono che suo marito sia un assassino. Un mostro che prova un sadico quanto ripugnante piacere nell’uccidere. Troppo sconvolta da quella rivelazione, Beth non comprende subito quello che i poliziotti vogliono da lei. Una sola, semplice risposta: è davvero possibile che la moglie di un serial killer non sospettasse nulla?
Recensione
Raramente ho chiuso un libro con così profondo disappunto, quindi una premessa è necessaria: questa recensione sarà estremamente negativa e, per giustificare al lettore la mia posizione, sarò costretto a rivelare almeno in parte la trama che comunque, è bene dirlo, non si discosta dal titolo.
La prima cosa che balza agli occhi, e che costituisce in definitiva il problema centrale di tutto il romanzo, è la scelta dell’autrice di utilizzare la tecnica narrativa del flusso di coscienza. Scelta quantomeno infelice poiché la costringe ad una fondamentale disonestà nei confronti del lettore che risulta, per me, imperdonabile.
Fin dal primo capitolo, infatti, siamo proiettati all’interno della mente dell’io narrante, che si alterna tra Tom e Beth. Così, quando nelle prime pagine arrivano due detective a prelevare Tom, il flusso di coscienza è quello di un uomo innocente, che si chiede per quale motivo lo vogliano interrogare.
Allo stesso modo, i pensieri di Beth restano, PER QUASI TRE QUARTI DEL LIBRO, quelli di una donna combattuta tra il credere o meno all’innocenza del marito.
Quando finalmente “scopriamo” , nel medesimo monologo interiore, che Tom ha già ucciso tre donne e che Beth lo sa da TRE ANNI, la domanda che sorge spontanea è: perché?
Perché una tale disonestà nei confronti del lettore?
Perché, quando sarebbe stato tanto più semplice ed efficace utilizzare una normale narrazione in terza persona?
Una scelta di questo tipo ci avrebbe risparmiato, oltre a questo tradimento, l’estenuante, inarrestabile logorrea mentale di questi due personaggi incapaci di una idea originale, di una aspirazione che non derivi dalle pagine di Cosmopolitan, di un dialogo che non risulti, in definitiva, inutile.
Come si può far pensare ad un proprio personaggio “Oddio, chissà cosa vorrà da me la polizia?”, se quel personaggio ha già ucciso tre persone?
Come si può far pensare ad un altro personaggio “Oddio, cosa vorrà la polizia da mio marito?” quando quel personaggio sa da ormai tre anni che il marito è un serial killer?
Sono domande a cui non so dare una risposta, ma questo è esattamente ciò che accade.
Per il resto, La moglie del serial killer è semplicemente noioso, il flusso di coscienza di Beth si alterna tra un immaginario erotico da Harmony (le labbra e le spalle di Tom sono descritte decisamente più di quanto necessario) e una vita felice altrettanto stereotipata, tra cottage nella campagna inglese, una pasticceria-sala da tè-negozio di ceramica-club del libro (sul serio, tutto insieme) aperto per sfuggire alla “terribile” vita della City e, ovviamente, l’immancabile progenie, Poppy, nominata così tante volte da suscitare velleità da Erode anche nel lettore più amorevole.
Non va meglio con il flusso di coscienza di Tom che, persino nel momento in cui “diventa” la voce di un serial killer, resta privo di qualsiasi spessore.
In definitiva non c’è nulla, in questo libro, non una sola frase o concetto che non sia stato espresso meglio altrove. Persino l’idea centrale era stata affrontata, e perfettamente risolta, da nientemeno che Stephen King nel suo racconto breve “Un bel matrimonio”, incluso nella raccolta Notte buia, niente stelle.
Il romanzo, purtroppo, non ha dalla sua neppure il pregio della brevità e i novantuno capitoli si susseguono senza che si riesca ad avvertire il benché minimo stimolo a proseguire la lettura.
Il successo che sembra aver ottenuto in patria appare incomprensibile.
Scegliete altro.
Autrice
Alice Hunter è laureata in Psicologia e ha collaborato per lungo tempo a programmi di riabilitazione nelle carceri. Il suo lavoro a contatto con detenuti che avevano commesso crimini violenti è stato d’ispirazione per il suo thriller d’esordio, La moglie del serial killer, balzato ai primi posti delle classifiche inglesi.
