
Sara Bilotti è una persona sorprendente. Napoletana verace, appassionata di arte, studiosa di linguistica e filologia, ha alle spalle una carriera nella danza classica che ha abbandonato per dedicarsi completamente alla scrittura.
Dopo i faticosi inizi come ghost writer, esordisce nel 2012 con la raccolta di racconti Nella carne per i tipi di Termidoro. Pochi anni dopo, è il 2015, pubblica per Einaudi una trilogia che si completa nel giro di pochi mesi: Il perdono, La colpa e L’oltraggio. La stampa all’epoca la presenta come la risposta italiana al successo delle 50 sfumature di grigio, ma Sara ha sempre rifiutato una etichetta che pure avrebbe potuto cavalcare con facilità, preferendo sempre e con ragione parlare di noir.
Nel 2018 pubblica con Mondadori I giorni dell’ombra, che riscuote un immediato successo e che diventerà presto un film. È anche l’anno del suo esordio come traduttrice, attività che prosegue con grande passione e che la porta a confrontarsi con mostri sacri come Jeffery Deaver, Elizabeth George e Joe R. Lansdale.
Eden, la cui recensione potete leggere QUI, è la sua più recente fatica letteraria.
Uscito da poche settimane per i tipi di Harper & Collins, si può già definire un successo conclamato.
Dopo averla incontrata a Firenze, ospite dell’amico Stefano Miniati, Sara ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande.
Buongiorno Sara, e complimenti per questo tuo nuovo romanzo. Sono passati quattro anni dall’ultima volta che abbiamo avuto il piacere di leggerti, un periodo che a qualcuno potrebbe sembrare lungo dati i tempi frenetici con cui si susseguono le nuove uscite, in un meccanismo forse anche un po’ drogato dalla serialità. Una scelta controcorrente la tua, anche se giustificata dalla cura e dalla attenzione poste in questo lavoro.
Quanto è stato difficile sottrarsi alle leggi non scritte dell’editoria, alla serialità, alla continuità, alla adesione a certe ricette tanto radicate da essere quasi dogma?
Non mentirò: per me è difficilissimo. Da quando sono in Harper, però, devo ammettere con sollievo di non aver subito alcuna pressione riguardo i temi e lo stile della mia scrittura. Ho una totale libertà creativa: mi pare un sogno.
In Eden il tema centrale sembra il rapporto con l’infanzia, paradiso perduto per molti, vero inferno per i protagonisti della tua storia che riescono a costruirsi come adulti solo sull’orizzonte degli eventi di questa sorta di buco nero.
Esiste, per te, vero libero arbitrio quando la nostra sfera emotiva è costruita intorno ad eventi su cui non avevamo controllo? E come si risolve il rapporto con il proprio passato?
L’imprinting che subiamo da bambini ci plasma, nel bene e nel male. Nel caso dei protagonisti di Eden, il buco nero dell’infanzia pietrifica, imprigiona, costringe in un loop di comportamenti che può essere spezzato solo da eventi altrettanto traumatici.
Non credo possa esistere libero arbitrio, soprattutto se la sfera emotiva contiene cicatrici che risalgono all’infanzia. L’unico modo per sopravvivere al trauma è averne piena consapevolezza: in questo caso la terapia è fondamentale. Diventare sani è spesso impossibile, ma convivere consapevolmente con ciò che ci ha plasmati è già una forma di guarigione: ci consente di amarci lo stesso.
In ogni romanzo l’autore, se è bravo, sa inserire dei momenti di verità. Non necessariamente autobiografici, sono però quelli in cui autore e lettore entrano in intimità. King, Carver ma anche Lansdale sono i primi nomi che mi vengono in mente ma anche Giulia, quando spiega il funzionamento del cerchio che la separa dal mondo, sembra paradossalmente aprirsi al lettore.
Quanto è importante questo aspetto, secondo te?
Fondamentale. Un libro senza viscere lo riconosco subito: mi annoia.
Conosco molto bene quel cerchio, e spero di averne parlato con autenticità e rispetto. Anche quando parlo di violenza familiare e abuso mi chiedo costantemente se lo sto facendo con assoluta autenticità e profondo rispetto. Ho parlato per anni con bambini e ragazzi vittime di abuso, e l’ultima cosa che vorrei è raccontare l’orrore con distacco, ipocrisia, affettazione. Se si decide di scrivere di certi argomenti è necessario conoscerli bene.
Altro aspetto importante, in Eden, è il rapporto con l’Arte, col bello.
Siamo stati educati a pensare al bello come valore oggettivo, esistente e forse addirittura preesistente in una dimensione altra, a cui l’artista attinge come pontefice, portandolo nella realtà ordinaria. Il bello, per molti di noi, ha una funzione ascetica, trascendente. È forse l’arte, a trattenere i tuoi protagonisti sul loro orizzonte degli eventi, impedendogli di farsi inghiottire dal buio che si portano dentro. Quando l’equilibrio si rompe, per molti di loro è la fine, ma non per Giulia, che trova invece un equilibrio nuovo e diverso.
Quanto è importante, per te, la capacità di mollare i propri punti fermi, quando diventano ancore che ci impediscono di andare oltre?
Se esiste uno scopo dell’Arte, per me è proprio questo: stupirci, regalarci un’altra prospettiva sul mondo e su noi stessi. Solo così possiamo liberarci dalle briglie delle certezze indotte. La Bellezza non può essere consolatoria, deve farci un po’ tremare, altrimenti è inutile.
Gabriele, fin nel nome, è il prototipo perfetto del bello e dannato, “consapevole del proprio corpo come pochi maschi lo sono“, in una definizione di fascino che ci parla della tua educazione alla danza. Ti confesso che questa bellezza estrema, questo fascino irresistibile di Gabriele è l’unico aspetto che ho trovato fastidioso, forse per un pregiudizio maschilista che non vuole, in un uomo, la bellezza come metro, come discrimine.
Quanto incide secondo te, nei rapporti, la bellezza fisica?
Comprendo molto bene l’irritazione, ma Gabriele doveva rispettare certi canoni, addirittura certi cliché, per permettermi di inserirlo nel quadro dell’Eden. Spero che alla fine il cliché per il lettore si frantumi per poi ricomporsi in un essere umano autentico, persino degno di pietà.
In effetti è quello che accade.
Nei miei rapporti la bellezza fisica conta pochissimo. L’unica bellezza che amo è quella dell’Arte, dei quadri, della poesia, della scultura, dei romanzi. Una bellezza senza canoni fissi, libera, sorprendente, mai ammiccante, una Bellezza trionfale.
Nella recensione, che esce quest’oggi contemporaneamente a questa nostra chiacchierata, mi sono interrogato sulla definizione giusta per questo romanzo e mi sono risposto che sarebbe un thriller se, alle armi e alla azione si sostituiscono i sentimenti e i rapporti.
Se il conflitto e l’indagine costituiscono la risposta maschile al mistero, possiamo ipotizzare, forse persino teorizzare, una letteratura di genere che a questo approccio maschile contrapponga uno femminile fatto di rapporto, interiorizzazione e comprensione?
Esistono generi e sottogeneri, come ben sai. Non amo le etichette ma so che sono utili, dunque cerco di capire quale sia la mia. Gli editori parlano di thriller psicologico, e probabilmente hanno ragione: non scrivo di commissari ma di persone comuni che svelano un mistero. Solitamente, dopo aver svelato il mistero di uno dei personaggi secondari, il mio protagonista scopre quello che nasconde dentro di sé. E, come in un gioco di specchi, spero che anche il lettore scopra qualcosa del suo lato oscuro. Quello ce l’abbiamo tutti: se lo ignoriamo capita che si ribelli.
Ci sono esempi di autrici che hanno affrontato il genere con quest’ottica e che ti hanno influenzato?
Dio di Illusioni di Donna Tartt, il mio libro preferito in assoluto, ha la struttura del thriller ma sconfina continuamente. Adoro i romanzi disobbedienti.
Mi piacciono molto anche Gillian Flynn, Ruth Rendell e Patricia Highsmith. Ultimamente grazie a un consiglio di Stephen King ho scoperto Catriona Ward: il suo ultimo romanzo è stato etichettato come Horror ma secondo me è un perfetto thriller psicologico.
Se dovessi indicare tre parole che ti rappresentano, quali sarebbero?
Libera. Ostinata. Appassionata.
Se dovessi scegliere tre cose di cui non potresti mai fare a meno, ovviamente escludendola scrittura, quali sarebbero?
Leggere, viaggiare, tradurre.
Prima di salutarci, che messaggio o augurio ti piacerebbe lasciare ai nostri lettori?
Uno molto banale, che però negli ultimi tempi mi pare assolutamente necessario: la serenità. Tra la pandemia e la guerra abbiamo perso il senso del futuro, e senza di esso tutto diventa un sogno lontano: tutto sembra impossibile. Auguro a me e a voi pensieri finalmente sereni, liberi dalla paura, e un futuro vivo e splendente.
Thriller Life ringrazia Sara Bilotti