
Fabiano Massimi nasce a Modena nel 1977 e qui studia e lavora nella Biblioteca Antonio Delfini.
Sceglie la facoltà di Filosofia a Bologna dove si laurea, per poi proseguire gli studi a Manchester.
Particolarmente significativa la sua esperienza presso la Scuola Holden, dove ha conseguito un master in tecniche della narrazione e dove ha lavorato come bibliotecario.
Collabora con diverse case editrici, su tutte la Einaudi, dove cura varie antologie, traduce autori stranieri come Julie Kavanagh, Richard Marinick e lavora come editor di narrativa e saggistica.
Nel 2017 Fabiano Massimi vince il Premio Tedeschi per il miglior romanzo giallo inedito con Il Club Montecristo un giallo umoristico pubblicato lo stesso anno nella collana da edicola Giallo Mondadori Oro e nel 2021 nella collana Giallo Mondadori.

L’angelo di Monaco, pubblicato da Longanesi nel 2020, è un thriller storico che ruota intorno alla misteriosa morte della nipote di Adolf Hitler.
Il romanzo diventa l’esordio italiano più venduto alla London Book Fair 2019 e nel tempo vince numerosi riconoscimenti; recentissimamente il prestigioso Prix des Lecteurs 2022 nella categoria storica dei Polar.
Seguirà nel 2021 la pubblicazione, sempre per Longanesi, di I demoni di Berlino.
Vivi nascosto , uscito per Mondadori nel 2022, è la seconda avventura degli Ammutinati, i protagonisti che abbiamo imparato a conoscere nel Club Montecristo. Romanzo raffinato sostenuto da una un’intelligente ironia. QUI la recensione di Thriller Life.
Fabiano Massimi ha gentilmente accettato di rispondere alle nostre domande.
1. Vivi Nascosto, secondo atto del premiato Club Montecristo, è un giallo fortemente stratificato, ricco di riferimenti culturali, assonanze volute, connessioni metatestuali che gratificano il lettore più attento, a partire ovviamente dal titolo.
Una matrioska narrativa che ricorda L’anomalia di Thilliez, la sagacia di Eco e le sperimentazioni linguistiche dell’OuLiPo.
C’è un disegno ben preciso dietro la storia? Un riferimento in particolare che speri sia stato compreso? E soprattutto, quanto ti sei divertito a stuzzicare le sinapsi dei tuoi lettori?
Buongiorno ai redattori e ai lettori di ThrillerLife, e grazie per questa occasione.
I riferimenti che citate, e in particolare i miei amati Eco e Oulipiani (Perec su tutti), sono sottili e in parte sorprendenti anche per me: si vede che leggerli con tanta passione negli anni dell’adolescenza ha lasciato tracce profonde, diciamo inconsce?
Sì, senz’altro i romanzi degli Ammutinati sono sempre stati pensati come uno spazio ludico, sperimentale, in cui mescolare il calembour (e qui aggiungo un omaggio necessario ad Alessandro Bergonzoni, mio conterraneo e maestro da lontano) con una costruzione quasi matematica.
Il fatto è che quando scrissi il Club Montecristo ero alla prima prova lunga, e per essere certo di riuscire iniziai dalla struttura, disegnandola con dovizia di dettaglio e agganciandola ai miei studi narratologici e semiotici: tot pagine, tot capitoli, sequenze di lunghezze esatte, svolte e colpi di scena a cadenze inesorabili.
Poi, volendo scrivere un romanzo breve ma denso che regalasse tanto ai lettori (il cui tempo è materia preziosissima, più dell’oro, più del platino), mi misi in testa di incastonare in ogni pagina almeno una cosa degna di nota, o di risata.
Ecco quindi le citazioni letterarie – come un gruppo di lettura in remoto – e i giochi di parole martellanti. Lavorare in questo modo è stato incredibilmente facile e divertente, come spero sia, almeno in parte, leggerlo.
Facile, divertente e stimolante, perché come dice Stephen King: se il libro costa 20 dollari, il lettore deve portarsi a casa qualcosa che ne valga almeno 50.
2. Il tono scanzonato da commedia adottato per Vivi nascosto riesce per contrasto ad esaltare l’importante la tematica di fondo: il reinserimento dei detenuti nella società.
Il riferimento ad Edmond Dantes, rinchiuso in carcere ingiustamente, ci dice molto sui moti mentali che smuovono il sottopunto.
Quanto ha influito sulle pagine di questa storia la tua esperienza nel carcere di Sant’Anna? La voce dei tuoi personaggi ha un’eco nella realtà di tutti i giorni?
Sempre Umberto Eco, che è stato e resta l’influenza più profonda del mio approccio a lettura e scrittura, diceva che degli argomenti importanti è importante ridere, ma sul serio.
Questo significa, per come lo leggo io, sia che non esiste un tema, per quanto grave, che non possa sopportare un pizzico di ironia, guadagnandoci; sia che la risata non è una cosa leggera, ha un suo peso specifico, una sua alta dignità – va insomma presa sul serio.
L’idea di scrivere di carcere ed ex detenuti mi venne quando, in veste di bibliotecario, presi a frequentare l’istituto di pena della mia città (Modena, nei romanzi ribattezzata Mutina).
Lì scoprii un mondo che tutti noi immaginiamo poco e male, ma che dice tanto della nostra società, e anche di noi singoli cittadini ed essere umani, perché il rapporto con delitto, castigo, colpa e redenzione è tra i più caldi e rivelatori che esistano, e il fatto che costantemente venga rimosso ne denuncia per paradosso la centralità.
Vedevo questi uomini e queste donne marchiati con lo stigma della carcerazione angustiarsi sul come, una volta fuori, avrebbero potuto riabilitarsi, e imparai che in Italia è quasi impossibile non tornare a delinquere, dato che non esistono (a dispetto di una legislazione avanzatissima) strumenti concreti di reinserimento sociale.
Nessuno affitta casa a un ex truffatore, nessuno dà lavoro a un ladro patentato, ed è comprensibile, certo, ma comunque disumano.
La recidiva, come si chiama in gergo, riporta dietro le sbarre oltre l’80 percento degli ex detenuti, quando se a questi viene offerto un lavoro la percentuale scende sotto il 10 percento.
Così ho immaginato una società di mutuo soccorso creata e gestita da ex carcerati che non vogliono più tornare dentro, e visto che il tema era potenzialmente drammatico, li ho resi scanzonati come solo chi ha avuto una seconda occasione può permettersi di essere.
Quando porto il libro in giro per carceri, è questo punto a riscuotere l’entusiasmo dei lettori: la voglia di vivere e ridere oltre le sbarre, la stessa che tutti noi abbiamo sperimentato durante il grande lockdown del 2020.
3. In questo romanzo sono evidenti le critiche verso il mancato supporto da parte dello Stato nei confronti di chi ha scontato la propria pena, a tratti sopperito da associazioni di volontari o, come nel libro, dagli stessi ex-carcerati.
Viene anche sottolineato il modo di pensare comune, come vengono percepiti gli ex-detenuti una volta che sono usciti dal carcere; la diffidenza e le difficoltà che incontrano, i pregiudizi, nonostante abbiano pagato il loro debito, la società continua a percepirli come delinquenti.
Quale potrebbe essere la chiave per scardinare questo pregiudizio così radicato?
Vale la pena di insistere sul fatto che la legge italiana in merito è tra le migliori al mondo. Il problema è applicarla, per la solita mancanza di fondi.
Nel primo romanzo della serie, a un certo punto Arno (uno dei due protagonisti principali, un informatico bancario che mette piede per la prima volta in un carcere) scopre che “dentro” tutti gli orologi appesi alle pareti segnano ore diverse e sono fermi.
Può sembrare un gioco dell’autore, invece rispecchia una realtà che ho testimoniato, e su cui mi sono scervellato a lungo – fino a quando un’educatrice non mi ha svelato l’arcano: mancano i soldi per le pile. O quelle o la carta igienica.
4. Consulente editoriale, articolista, traduttore, un’esperienza formativa straordinaria presso la Scuola Holden; praticamente respiri inchiostro da sempre.
Quale esperienza pensi che abbia formato maggiormente il tuo stile narrativo? E quali sono le figure di riferimento che hanno segnato il passo delle tue scelte?
Leggere, sempre, di tutto, dappertutto. Studiare filosofia.
Vivere in Inghilterra al mio terzo anno di università.
Lavorare in Einaudi al fianco di Paola Gallo e Dalia Oggero, due tra le migliori editor italiane di sempre (la striscia vincente di premi Strega dello Struzzo, da Scarpa a Cognetti, da Lagioia a Desiati, è merito loro).
Poi la Scuola Holden, sì, di cui ora sono un docente nel programma universitario, Academy.
Il fatto è che scrivere è anzitutto vivere, e vivere tra le storie, anche senza preoccuparsi troppo se gli strumenti narrativi si smussano nel processo, come dice Papa Hemingway nella sua splendida prefazione ai Quarantanove racconti.
5. L’arte della traduzione implica una buona conoscenza di usi e costumi propri di un altro popolo, ma soprattutto un alto grado di empatia.
Lasciarsi attraversare dalle parole per guardarle con occhi diversi e poterne così trasmettere il giusto messaggio è fondamentale per una buona traduzione.
Questo esercizio psicologico ti ha aiutato nella stesura dei tuoi testi?
La credibilità dei tuoi personaggi trae beneficio da questo tuo talento?
Tradurre autori come Dennis Lehane è un’esperienza formativa a tutti i livelli.
Soprattutto, è scrivere allo stato puro, senza la preoccupazione che la storia che racconti sia buona o piaccia: se la stai traducendo, è buona eccome, ed è già piaciuta a molti.
Ti concentri sulle parole, sulle atmosfere, sulle sfumature che come custodiscono l’anima dei personaggi. L’empatia è soprattutto con l’autore o l’autrice, con il mondo che hanno costruito o ricostruito, ed è un esercizio di umiltà e messa a servizio che consiglio a qualunque aspirante scrittore: guardare la macchina da dentro, parola per parola, scelta per scelta.
Si impara moltissimo, e se ne esce cambiati. Poi, va detto, i grandi traduttori, come Susanna Basso, Silvia Pareschi, Fabio Cremonesi, sono diverse spanne sopra di me, e anche questo insegna rispetto per un lavoro fondamentale e un po’ bistrattato nella nostra scena letteraria.
6. L’angelo di Monaco e I demoni di Berlino, thriller storici di notevole successo, attraversano anni bui e i protagonisti più scomodi non vengono in alcun modo deformati da legittimi giudizi.
C’è un equilibrio perfetto tra storico e giallista, tra documentazione e finzione.
Quanto è sottile il filo che lega realtà e fantasia in un buon thriller storico?
Questo filone narrativo è esaurito o possiamo attenderci un seguito?
Intanto grazie per il giudizio lusinghiero. Io non so quanto adeguato sia l’equilibro tra storia e giallo, tra realtà e invenzione.
So che è proprio il confine su cui ho lavorato scrivendo di Sauer, Mutti e soci, e che non lo lascerò tanto presto: ci sono anni cruciali, al loro orizzonte, anni che assomigliano in modo inquietante ai nostri, e raccontarli è quasi una necessità per me, a questo punto.
Un’occasione unica per rivivere e comprendere, possibilmente esorcizzare.
La Serie di Sauer ha una fine in vista, potrebbero essere cinque o anche sette libri, e il terzo episodio è in cantiere.
Prima, però, andremo a Praga, nel 1938, senza il mio ex commissario questa volta, per raccontare un’incredibile storia vera mai narrata.
Uscirà a gennaio per Longanesi, e presto se ne potrà parlare. A oggi credo sia il mio libro più intenso.
Non vedo l’ora di scoprire come verrà accolto dai lettori.
7. I titoli che riecheggiano gli anni del nazismo e tutta la congrega di personaggi che ha banchettato sulle tavole del Führer capeggiano sugli scaffali delle librerie da anni, senza alcun timore di cadere nel dimenticatoio.
Guariremo mai da questa bieca fascinazione? Oppure continuare a leggere e raccontare ci porterà ad un nuovo livello di accettazione?
Non credo che ne guariremo mai, perché il fascismo (e tutti i derivati, primo fra tutti il nazismo) sono fenomeni incredibilmente affascinanti (la radice delle due parole è la stessa), che una volta inventati non è più possibile disinventare.
Tocca stare all’erta per coglierne le ramificazioni sempre nuove e diverse, impegnarsi a disinnescarle una per una, e in questo le storie che ne raccontiamo hanno un ruolo chiave.
Non è vero che la svastica vende perché siamo morbosi; la svastica vende perché dal Secolo Breve, che doveva essere finito ormai trent’anni fa, non è finito affatto, non è stato breve per nulla. Noi mariniamo ancora nel brodo che ha creato Mussolini e Hitler.
Dobbiamo ancora capire, fare i conti, superare con un passato che non si decide a passare. Accettare questo è l’inizio della vera liberazione.
8. Se dovessi indicare tre parole che ti rappresentano, quali sceglieresti?
Fame, passione, ansia da prestazione.
9. Se dovessi scegliere tre cose di cui non potresti mai fare a meno, ovviamente escludendo la scrittura, quali sarebbero?
Un buon romanzo, un atlante, il mio smartphone.
10. Prima di salutarci quale messaggio o augurio ti piacerebbe lasciare ai nostri lettori?
Il Club Montecristo si conclude con una rivelazione che Arno ricava dalla vicenda e che giro a chiunque: il senso della vita è, mentre affrontiamo come possiamo il tempo che ci è stato dato, non dimenticare di fare ciò che siamo nati per fare.
Auguro a tutti di scoprire il prima possibile cosa sono nati per fare, e di trovare la forza, il coraggio, la follia, la leggerezza per riuscirci.
Thriller Life ringrazia Fabiano Massimo per la gentilezza
a cura di Baterenghi e Patty Pici