
Giancarlo Piacci
Sono nato a Napoli nel lontanissimo 1981.
Andavo piuttosto male a scuola (di cui comunque conservo un ricordo meraviglioso, tipo un villaggio turistico).
Contrariamente ai pronostici sono riuscito comunque a laurearmi in Storia contemporanea (mia madre è ancora in lacrime, incredula).
Lavorare in libreria era una scelta obbligata per molte ragioni, principalmente perché a nove anni avevo già scartato tutte le professioni che richiedessero di indossare la cravatta.

Giancarlo Piacci da più di dieci anni è uno dei librai di riferimento della città di Napoli
I santi d’argento pubblicato da Salani nella Collana Le stanze è il suo primo romanzo.
I santi d’argento è un Noir contemporaneo, intimo e magmatico, una testimonianza di quanto la scrittura possa modularsi sul sentire reale del mondo
Thriller Life ha letto e recensito questo bellissimo romanzo di Giancarlo Piacci QUI
Giancarlo Piacci ha gentilmente risposto alle nostre domande
1. I santi d’argento, tuo primo Noir pubblicato, colpisce prima di tutto per il titolo. Riecheggia un sapere antico, sussurra storie d’altri tempi. In copertina queste parole capeggiano su un’illustrazione dai riconoscibili tratti di Zerocalcare, portavoce dello spirito dei nostri giorni. Da dove nasce la scelta di questo titolo e come si rapporta con la dinamicità culturale dell’epoca moderna?
Molti dei valori con cui ho avuto la fortuna di entrare in contatto fin da bambino appartengono ad una Napoli antica, una Napoli la cui saggezza emergeva dalla strada e raggiungeva le case.
Era una cultura che cresceva come l’erba spontanea tra i vicoli più poveri e che una pietra alla volta si diffondeva in tutta la città.
Era un misto di conoscenze arcaiche e di furbizia coeva, stretti tra loro in una perenne trasformazione dialettica.
Si trattava di un bagaglio educativo che garantiva la possibilità di affrontare, o almeno di interpretare, ogni situazione contemporanea.
Anche il rapporto tra il sacro e il magico è stato interessato da questa dialettica, fino a arrivare a reggersi su un equilibrio assai labile. Si fondevano le ritualità più remote e l’incrollabile fiducia religiosa.
Oggi, molta di questa tradizione orale si tramanda più difficilmente perché costretta a competere con informazioni che arrivano da ogni parte.
Tuttavia credo che si prepari a una strenua resistenza.
2. Napoli e i suoi vicoli, nel tuo romanzo, si fanno personaggio. Umori e sensazioni vengono amplificati e l’umanità che vive queste strade riflette le crepe dei palazzi nelle proprie rughe. “Il vicolo scompone il concetto di famiglia e di proprietà. [ …] Tutto è in comune. Le litigate, la televisione, i profumi della tavola.” È la Napoli che Giancarlo Piacci vive ancora oggi? Oppure questo microcosmo urbano e sociale si sta arrendendo al nuovo individualismo?
Come dici giustamente, Napoli è in assoluto la protagonista del romanzo.
In questa storia ci sono personaggi sofferenti, ma anche territori sofferenti.
Senza dubbio la città, e il centro antico in particolar modo, è interessata da trasformazioni enormi. Cambiamenti che rischiano di comprometterne l’autenticità e di stravolgerne per sempre lo storico tessuto sociale, che poi ne rappresenta la ricchezza.
Non sono cose che avvengono dall’oggi al domani.
E queste dinamiche di identità, di comunanza e di appartenenza sono ancora molto presenti e radicate.
Il problema è rappresentato da un processo di espulsione dei residenti storici dai quartieri popolari del centro, dovuta all’aumento dei prezzi.
Questi mutamenti rischiano di modificare totalmente il volto e il cuore di Napoli per come sono sempre stati.
3. Vincenzo Cocchiara, protagonista e voce narrante di I santi d’argento, è un uomo sostanzialmente solo, esule dalla sua stessa esistenza. “Vivo in una trincea da cui gli scoppi della mia guerra arrivano attutiti”. Pagina dopo pagina ne apprezziamo il disincanto, che non lo priva della passione, ma gli palesa la giusta misura delle cose. Profondamente cerebrale, trasforma i ricordi, pesanti fardelli indesiderati, adattandoli ad una realtà più accettabile. Mi ha ricordato molto i moti interiori dei personaggi di Dostoevskij. È il maestro al quale ti sei ispirato per dare vita a Vincenzo? Quale autore classico ha formato maggiormente la tua prosa?
Anzitutto, grazie mille per un paragone per me così lusinghiero. Sono felice e onoratissimo che Vincenzo ti abbia ricordato (immeritatamente) i personaggi nati dalla penna di un mostro sacro con Dostoevskij.
Devo ammettere di avere un serio problemi con i classici.
Per qualche ragione sono libri che si leggono quasi sempre da giovanissimi e molto spesso assegnati a scuola.
Ecco, io a scuola non andavo affatto bene, ed ero decisamente insofferente verso gli studi che mi vanivano imposti.
Per cui ho dovuto recuperare tutta la lettura dei classici in età più adulta.
L’ho fatto con grande rammarico per quello che mi ero perso, ma anche con una certa soddisfazione perché mi sentivo più strutturato socialmente e culturalmente, e dunque meglio preparato per comprendere fino in fondo ciò che stavo leggendo.
Tornando alla domanda, non so se qualche classico abbia avuto particolare influenza sul mio modo di scrivere, ma di certo volgerei lo sguardo più alla Francia.
In particolare ai Miserabili di Hugo.
Ancora molti mesi dopo la lettura di quel libro (nonostante debba riconoscere di aver faticato non poco sul secondo tomo, quello su Waterloo), tutto quello che mi passava tra le mani mi pareva costituito da nient’altro che storielle senza importanza a confronto con l’enormità delle vicende di Jean Valjean.
4. Nel panorama noir italiano far emergere la propria voce non è facile, soprattutto se il centro della scena è Napoli, polo magnetico irresistibile per molti scrittori e sceneggiatori. La città che racconta Giancarlo Piacci è diversa. Hai spogliato Napoli della retorica del paese d’’o sole, delle immagini di Gomorra, delle filippiche di Saviano, del dialetto così stretto da essere incomprensibile ai più e ci hai consegnato una città vera, palpabile, italiana. Questa cifra stilistica investe anche il registro espressivo, che ricorre al dialetto napoletano solo in alcuni nodi cruciali della storia e in pochissime altre occasioni. Qual è l’immagine di Napoli che vuoi far passare attraverso le tue pagine? Qual è il segreto di questa città, la sua vera anima?
Non è affatto facile rispondere a questa domanda poiché tiene dentro numerose questioni.
Comincio col dire che mi piace pensare che Napoli abbia quella “i” alla fine perché rappresenta una città plurale, una città in grado di accogliere figli diversi e farli sentire tutti a casa allo stesso modo.
Per quanto mi riguarda non esprimo giudizi di merito su chi ha raccontato o racconta la città.
Mi limito a dire che in molte narrazioni non riesco a ritrovare la Napoli per come la conosco io.
Per questa ragione ho tentato di rappresentarne il mio punto di vista.
Che spero possa coincidere con quella parte dei residenti che subisce sia la retorica della cartolina che lo stigma della camorra.
È difficile collocare Napoli in un’entità istituzionale definita, anche semplicemente in quella italiana.
Per come la vedo io, Napoli è una città-mondo, un universo perennemente in espansione non catalogabile e non incasellabile.
Per concludere, ho scelto di ridurre al minimo l’utilizzo del napoletano perché semplicemente credo sia quello che attualmente ci si aspetti commercialmente da un romanzo ambientato nel capoluogo campano.
5. “Papà aveva una passione insaziabile per la letteratura e per la mitologia, al punto che le avventure di Salgari e l’assedio di Troia furono le mie favole della buonanotte”. Conoscendo il tuo percorso lavorativo che ti ha portato ad insegnare Storia e a consigliare libri tra gli scaffali della libreria Ubik di Napoli, è inevitabile domandarsi se queste parole siano davvero autobiografiche. Ci sono frammenti di ricordi, di esperienze che ti hanno formato tra le righe di I santi d’argento?
Di autobiografico c’è molto, la mia famiglia è il primo giacimento da cui ho attinto.
È assolutamente vero che sono cresciuto attorniato dai libri; che le Tigri di Mompracen e la battaglia tra Ettore e Achille siano state le mie favole della buonanotte; è vero che non mangio le gomme a fragola (sebbene non per la stessa ragione di Vincenzo); è vero che mia mamma conosce un’infinità di proverbi napoletani.
Credo che tutto questo abbia concorso ad accendere in me delle curiosità e ad instradarmi sui percorsi che poi mi hanno condotto fino a qui.
Tra me e Vincenzo si è istaurata una dialettica e ci siamo strattonati molto; rivendicava, giustamente, una sua indipendenza rispetto a me.
Mi ha concesso di poter dire solo una volta qualcosa di mio, nell’ultima frase del romanzo, quando il nostro modo di sentire le cose coincide perfettamente.
6. “Un romanzo non è un’allegoria, è l’esperienza sensoriale di un altro mondo. Se non entrate in quel mondo, se non trattenete il respiro insieme ai personaggi, se non vi lasciate coinvolgere nel loro destino, non arriverete mai ad identificarvi con loro, non arriverete mai al cuore del libro. È cosi che si legge un romanzo: come se fosse qualcosa da inalare, da tenere nei polmoni. Dunque, cominciate a respirare.” Da Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi. La parola respiro nel tuo testo ricorre spesso e la mente mi è automaticamente andata a questa bellissima frase della scrittrice iraniana Nafisi. Ti ritrovi nel suo pensiero?
Assolutamente.
E, anzi, grazie mille per aver chiamato in causa una così immensa scrittrice a proposito dei Santi.
Tre le molte cose che le lettrici e i lettori mi stanno restituendo dalla lettura del romanzo c’è proprio questa idea di permettere di attraversare i luoghi di cui parlo e di respirarli.
7. “Alle volte mi capita di avere nostalgia di tutte le vite che non ho avuto modo di vivere e che non vivrò mai”. Questa nostalgia la capisco. Penso che ognuno di noi abbia dovuto scegliere, prendere una strada piuttosto che un’altra. Se ti fosse concessa la possibilità di vivere un’altra vita quale sarebbe?
Difficile dirlo. Molto spesso mi pongo una domanda simile, eppure capovolta.
Se non avessi avuto le opportunità che ho avuto, che strade avrei percorso?
Ho avuto la fortuna di nascere in una casa con tanti libri, con genitori istruiti; ho avuto la fortuna di frequentare l’università.
A molti dei miei personaggi, così come a molte persone che vivono attorno a me, queste opportunità non sono state garantite.
La vita ha messo loro tra le mani solo difficoltà e “tarantelle”.
Per questa ragione non mi sono mai permesso di giudicare le scelte altrui.
Nel romanzo si sottolinea spesso che concetti come verità e giustizia sono ambigui e multiformi. Dipendono sempre dai punti di vista da cui li si osserva. O li si subisce.
8. Se dovessi scegliere tre parole che ti rappresentano, quali sarebbero?
Ansioso, in pole assoluta.
Poi passionale e tifoso (del Napoli, ovviamente!)
9. Se dovessi scegliere tre cose di cui non potresti mai fare a meno, escludendo ovviamente la scrittura, quali sarebbero?
Questa è la domanda più semplice a cui rispondere.
La prima e la seconda sono fortemente concatenate: La prima è Napoli, la seconda è il Napoli.
La terza è il mio cane, Maracanà.
10. Prima di salutarci quale messaggio o augurio vorresti lasciare ai nostri lettori?
Vorrei mettere in guardia sulla brandizzazione di Napoli che vedo venire.
Di non credere completamente a tutto quello che si dice su Napoli, neanche a quanto possa dire io. Napoli è ingannevole, si ribelle a ogni interpretazione.
Per vocazione sovverte i giudizi, è un luogo in cui ribolle sempre un’insurrezione, come il Vesuvio che se ne sta lì quieto, eppure sempre pronto a esplodere.
Napoli è sempre altrove.
Thriller Life ringrazia Giancarlo Piacci per la sua disponibilità
a cura di Patty Pici