Davide Longo: una vita declinata al presente

Davide Longo

Davide Longo

Davide Longo è uno scrittore piemontese, nasce a Carmagnola nel 1971 e vive attualmente a Torino dove insegna scrittura alla Scuola Holden.

Numerose sono le sue pubblicazioni a partire dal primo romanzo Un mattino a Irgalem (Marcos y Marcos 2001, Feltrinelli 2019) Premio Grinzane opera prima.

Oltre ai vari romanzi, Davide scrive per il teatro, per radio Rai, per le riviste e i giornali e gira anche dei documentari.

Il suo amore per la montagna lo porterà a curare alcune antologie, tra cui Racconti di montagna edito da Einaudi nel 2007 e a creare il progetto di ospitalità e scrittura AlfaBaita.

Davide Longo - La vita paga il sabato

Nel 2014 inizia la serie che ha come protagonisti Arcadipane-Bramard con il romanzo Il caso Bramard, seguito da Le bestie giovani e Una rabbia semplice, tutti editi da Einaudi.

La vita paga il sabato è l’ultimo della serie, dove ritroviamo tutto l’incanto di una lettura che sa travalicare i confini del genere noir, per trasportare il lettore in quel Paese narrativo in cui le parole hanno una valenza a tutto tondo, eleganti e magnetiche.

“ […] i retroscena torbidi del mondo del cinema anni ‘50 e ‘60 condiscono come una spezia rara tutto il libro e infine…un tuffo nel passato profondo dei rituali pagani e delle antiche tradizioni  seguendo gli affreschi e i messaggi nascosti di un pittore che in maniera dantesca dà alla Madonna del Labreno niente meno che il volto della sua amata.”

QUI la Recensione di Thriller Life.

Davide Longo ha gentilmente risposto alle nostre domande

1. Nella tua serie di romanzi del ciclo Bramard, i protagonisti sono come due corridori di una staffetta nell’atto di passarsi il testimone. E’ un po’ come un fermo immagine, perché questo “passaggio” non avviene mai in concreto. Bramard sembra uscire di scena in varie occasioni, ma, man mano che si avvicina il fulcro della vicenda, torna sempre in gioco. Nell’ultimo romanzo poi, senza voler svelare nulla, leghi tra loro a tripla mandata sia Bramard, che Arcadipane che Isa, lasciandoli però totalmente in equilibrio tra loro. Il fatto di non designare un protagonista unico è voluto, oppure, come molti pensano, sono i personaggi a prendere vita in modo tanto preponderante da non voler esser messi da parte? 

L’idea dei dare dei ruoli sempre diversi rispetto a protagonista e comprimario nella serie ai tre personaggi è legato al fatto che vorrei uscire dallo stereotipo della serie centrata su un unico commissario mentre tutti gli altri sono un po’ delle spalle, dei comprimari.

La serie è stata pensata, se non dall’inizio, almeno dal secondo volume della serie, come un grande romanzo corale, dove tutti i personaggi, soprattutto Arcadipane e Bramard, mi servono per mettere in gioco aspetti diversi del mondo, delle personalità, delle loro visioni dell’esistenza.

Ecco è come se un personaggio solo fosse un modo per scattare fotografie con un unico tipo di obiettivo, mentre in una serie e in un romanzo corale hai la possibilità di usare focali diversi.

È un elemento di complessità, ma penso che ad un certo tipo di lettori possa dare una ricchezza maggiore.

2. La figura di Ariel è particolare e suggestiva. Di sicuro Arcadipane mai si sarebbe aspettato una psicoterapeuta tutt’altro che accomodante e accogliente!  Il lettore stesso reagisce con perplessità ai vari “compiti” assegnati, arrivando addirittura a chiedersi come mai Arcadipane accetti di dedicarcisi! Accanto alla sua ironia tagliente e sopra le righe c’è anche la sua disabilità, che sicuramente non gioca un ruolo marginale. Come mai questa scelta di aggiungere un ulteriore carico a questo personaggio già di per sé complesso? 

Ariel non è un personaggio che non ha tantissime pose – cinematograficamente – non ha moltissime scene, ma è molto importante perché rappresenta la chiave di lettura di Arcadipane.

Arcadipane eccetta di seguire le indicazioni alquanto bizzarre, a volte persino ostili e imbarazzanti di Ariel, perché è come se si fosse accorto, arrivato a cinquant’anni, di essere chiuso in una sorta di corazza, che non riesce più togliersi, anche se l’ha in parte difeso per tanti anni, ma che ora lo soffoca.

Quindi è come se Ariel fosse l’unica persona che lui ha trovato e che, essendo così diverso da lui e mettendolo in relazione con una parte di sé così sconosciuta, gli togliesse, sebbene con grande fatica e a volte con dolore da parte sua, queste placche della corazza che si è appiccicato addosso nel tempo per difendersi dal mondo.

Il fatto che Ariel sia disabile è qualcosa che l’ha resa ancora più spietata; sia nell’ironia su sé stessa sia verso suoi ” pazienti “, anziché addolcirla è qualcosa che l’ha messa in relazione con la crudezza e anche, per certi versi, con la crudeltà della vita, costringendola a prendere di petto le situazioni, metodo che lei usa con Arcadipane.

3. Il tuo ultimo romanzo “La vita paga il sabato” è un viaggio nel passato talmente tanto profondo da andare letteralmente ad artigliare la mente del lettore portandola con sé in meandri spesso complicati da esplorare. Il ritmo non è incalzante ma il lettore non se ne va. E’ un po’ come un escursionista alle prime armi, che nonostante incappi in punti impervi e pericolosi del suo percorso, piuttosto che tornare indietro e rinunciare, continua la sua salita fino in cima. Ovviamente la soddisfazione finale è indubbia, ma nel bel mezzo del cammino il lettore non può saperlo. Trovi sia calzante il paragone tra il tuo romanzo e la montagna da scalare, ambiente così familiare al caro Bramard? 

La vita paga il sabato ha una struttura, sia narrativa, che dal punto di vista del plot, dai punti di vista dei salti temporali, dei vari piani della narrazione, complessa.

Complessa, ma io spero non difficile.

Spero che la forza della trama riesca tenere avvinto il lettore, anche quando lo costringe a degli spostamenti.

L’idea del giallo come forma di puro intrattenimento non mi è mai interessata.

Io non credo in generale, né al cinema, né alla letteratura, né all’arte come forma di intrattenimento, come passatempo. Credo che siano delle pratiche che richiedono comunque una fatica, un impegno, per cui ci sono dei modi più leggeri, più lievi per passare il tempo.

Questo non vuol dire che la letteratura debba essere faticosa, ma credo che non abbia molto senso se non come un luogo in cui passare per uscirne un po’ diversi.

Diversi non significa trasformati o frastornati, ma comunque un po’ cambiati ; l’idea di passare attraverso una narrazione e poi uscirne senza il minimo cambiamento rispetto a quello che si era quando si è entrati, è una cosa che trovo sempre un po’ deludente.

Non mi piace come lettore e quindi cerco di non attuarla come narratore.

Credo che ci sia un pubblico di lettori che abbia voglia di mettersi in gioco in maniera un po’ più profonda, anche quando legge quello che tradizionalmente viene considerato un giallo o un crime.

4. Per affrontare l’antichità c’è bisogno di tuffarcisi dentro e raccontare non basta. Ne La vita paga il sabato c’è un’armoniosa mescolanza anche di arte e letteratura. “Costringi” il lettore a confrontarsi addirittura con un testo antico, con la possibilità non remota di perderlo per strada. Quanto sei amante di questo genere di rischi?  

Ogni narratore quando si mette a scrivere una storia o dopo tanti anni che fa questo mestiere, come il mio caso, capisce che la narrazione è fatta sempre di una scelta di un destinatario.

Non si può scrivere per tutti, si può scrivere per molti, si può scrivere per pochi, ma non si può scrivere per tutti. Io so quando scrivo di aver fatto una scelta, che negli ultimi anni ha trovato un buon compromesso, credo, tra una mia idea della scrittura e della narrazione e l’incontro con il pubblico.

È un punto di contatto che ho cercato per molti anni e sono abbastanza soddisfatto del punto in cui sono arrivato oggi, questo non vuol dire che non si possa migliorare, anzi, un artigiano lavora sempre per migliorare propria scrittura e anche il proprio rapporto con il pubblico.

Il fatto che ne La vita paga il sabato ci sia un riferimento ad eventi avvenuti nel 1550/1600, un artista del passato, che si mescola però con un piano degli eventi che si colloca negli anni ’60, ecco io credo che la ricchezza, quando non diventa sovraffollamento, quando non diventa confusione, ma l’intreccio di più temi, sia qualcosa che può stimolare la mente del lettore.

A volte seguire una narrazione è un po’ come fare un’escursione, una camminata, il singolo passo può essere anche minimamente faticoso, ma comunque ti avvicina ad una meta.

Se il tuo desiderio di arrivare o diciamo la promessa che ti vene fatta da quel luogo è forte, allora anche quella minima fatica diventa una forma di soddisfazione e di piacere.

5. I personaggi dei tuoi romanzi sono solitari. La sfera sociale è vissuta con diffidenza e sospetto e a volte con sofferenza perché si accorgono tranquillamente che il loro modo di essere è un ostacolo agli affetti. Come mai alcuni di loro si “ribellano” a questo status e altri no? Nessuno di loro sembra amare particolarmente la solitudine anche se si trovano a convivere con essa.

Sì i personaggi dei miei romanzi sono quasi tutti dei solitari.

Sono dei solitari non tanto per scelta, ma quasi come se la solitudine fosse un luogo in cui la vita li ha portati in seguito ad una consapevolezza.

Ossia il fatto che tutti loro, Bramard, Arcadipane e Isa, sono guidati da un’ossessione, quasi da una compulsione, quella al completamento del disegno, che loro hanno messo al servizio dell’indagine poliziesca, hanno avuto la fortuna di trovare un lavoro che in un certo senso esalta questa loro compulsione.

È anche vero che ogni forma di ossessione, quella per la scrittura, anche quella per la lettura, in un certo senso ti allontana dal consorzio umano, perché è un’ossessione rende quella materia in cui sei ossessivo, più importante di qualunque altra cosa.

In loro convive quindi una necessaria vocazione alla solitudine e un tentativo in alcuni casi di mediare, di cercare di mantenere vivi, almeno in apparenza, i rapporti e le relazioni con le persone e il fatto di aver costituito loro stessi una sorta di famiglia, che non si basa forse sulla confidenza, sull’affetto, cioè gli ideali di amicizia che noi abbiamo tradizionalmente, ma piuttosto c’è una sorta di solidarietà tra imperfetti.

Tutti e tre, essendo vittime della stessa ossessione, in un certo senso si riconoscono come borderline e hanno costituito una sorta di famiglia alternativa, molto simile a quella che poteva essere un carrozzone di freaks di un circo, in cui non ti senti diverso, perché sei un diverso tra diversi.

6. Raccontaci un po’ del tuo progetto di ospitalità e scrittura: sicuramente, essendo un insegnante e un formatore, oltre che uno scrittore, per te il “pubblico” gioca un ruolo molteplice e attivo. E’ fonte di ispirazione anche per i tuoi scritti? Oppure è semplicemente il destinatario della tua mission, quindi il punto di arrivo?

Il mio progetto di AlfaBaita, che è il luogo in montagna in cui ho creato questo spazio di ospitalità e di didattica di scrittura, è nato come luogo in cui si fondono le mie tre grandi passioni.

La montagna, l’insegnamento e la scrittura.

Io credo nella scrittura come una forma di artigianato, che può essere anche un artigianato molto molto raffinato, come tutte le forme artigianali e che quindi si può insegnare a bottega.

Si può insegnare con un apprendistato da chi è più bravo di te, che fa quel mestiere da più tempo, ha scelto quel mestiere come ossessione o vocazione.

Quindi come tutte le forme di artigianato si può praticare, va praticata con dedizione, con passione, con un briciolo di ossessione che rende la fatica per raggiungere gli obiettivi tollerabile e questo posto in montagna è il luogo in cui si concentra tutto questo.

Le persone che ci vengono in alcuni casi sono scrittori professionisti, nella maggior parte dei casi sono persone appassionate di scrittura che magari stanno lavorando ad un loro progetto, oppure vogliono perfezionare il loro percorso, o vogliono semplicemente diventare anche solo dei lettori più consapevoli.

Vengono lì perché lì riescono ad ottenere qualcosa che a casa non riescono ad ottenere, che in parte è legata alla mia presenza come Capo Mastro, ma è legato soprattutto al fatto che chi non è uno scrittore di professione difficilmente riesce a ritagliarsi, non solo lo spazio fisico, di tempo per scrivere, ma anche lo spazio mentale.

Stare tre giorni o una settimana lì in montagna vuol dire che dalla mattina alla sera, per ventiquattro ore, anche di notte, puoi pensare unicamente alla tua storia, al tuo progetto, mettendo da parte tutte quelle incombenze che la vita quotidiana inserisce nella tua testa.

Quindi in un certo senso in quei giorni è come se ci fosse un potenziamento enorme dei neuroni che sono dedicati alla scrittura alle storie e al progetto che stai scrivendo.

Ecco perché nella maggior parte dei casi chi viene lì poi torna a casa con la storia a cui stava lavorando che è più chiara, che si è sviluppata, non è tanto merito mio che certo sono lì per ascoltare, dare consigli, dare indicazioni, ma è proprio l’idea di creare questa bolla di tempo e di spazio mentale.

7. Per tutti noi arriva un momento nella vita in cui c’è una svolta. Spesso questo momento è accompagnato da un libro che può addirittura diventarne la miccia. Esiste questo libro anche per te? E che tipo di svolta ti ha provocato?

I libri che hanno determinato una svolta nella mia vita sono stati i libri di Fenoglio, che ancora oggi considero il mio maestro dal punto di vista dell’artigianato della scrittura, ma anche dell’approccio alla scrittura, di che cosa voleva dire per lui scrivere e raccontare storie.

Credo che sia successo un po’ prima dei vent’anni quando ho letto Una questione privata, La paga del sabato, La malora, secondo me i suoi libri più riusciti.

Lì non ho incontrato solo una forma della scrittura, una voce che ho sentito congeniale, ma ho capito anche che l’essere umano che li aveva prodotti aveva una postura nella vita che mi sembrava qualcosa che io potessi seguire come un modello.

Di lì viene anche la mia idea che in fondo la voce, la scrittura e il proprio modo di stare al mondo sono due cose che devono coincidere come le impronte digitali che sono solo tue e così la tua scrittura, pur ispirandosi a dei modelli, deve cercare di diventare unica come un’impronta digitale che ti assomiglia e rappresenta la persona che tu sei.

8. Leggendo i tuoi romanzi troviamo una cura quasi artigianale tra le pieghe delle parole. Un sottobosco di gesti e accuratezze che donano una profondità particolare ai tuoi personaggi, così come ai paesaggi in cui si muovono. Una prosa frutto di disciplina e costanza o magnifico talento innato?

La prosa è sempre frutto di una sorta di predisposizione, di una attitudine a quel tipo di gesso artigianale e poi di tanto lavoro e applicazione. Di tanto spazio mentale dedicato a quella cosa lì, cioè chiunque ha una passione dedica a quella passione un tempo, che per chi non ha quel tipo di passione, è incomprensibile.

Così come andare in montagna, coltivare fiori, andare a fare footing o preparare una maratona. Ecco per chi non ha quel tipo di ossessione, quel tempo, quel sacrificio, quella fatica fisica e mentale sono assolutamente incomprensibili.

Però è attraverso quel tipo di dispendio che si raggiungono livelli nel maneggiare quell’attività che sono superiori a quelli della maggior parte delle persone.

Io cerco di avere una cura maniacale delle parole, perché credo che la grammatica dell’umano, cioè il modo in cui le parole riescono a restituire con esattezza le sfumature più minime della psiche e di quello che muove la mente dell’uomo e di conseguenza il suo corpo e le sue azioni, sia il terreno in cui davvero si esercita l’arte della narrazione.

In quel tipo di sguardo più acuto, più capace di cogliere, che c’è uno dei motivi per cui le persone leggono i nostri libri o cercano quel tipo di sguardo.

9. Passando alle domande più leggere, vuoi raccontarti a noi con tre aggettivi che ti contraddistinguono?  

Perfezionista, nel senso che tutto quello che cerco di fare, cerco di farlo non a livello di passatempo. Non mi piace l’idea di passare del tempo , odio i giochi da tavolo, i giochi di carte, fatti come passatempo.

Mi piace quando faccio qualcosa di qualunque tipo, cercare di approfondirlo, di dedicare lì tutte le energie.

Il secondo aggettivo potrebbe essere Disciplinato, credo di avere una pulsione che è profondamente di pancia verso le cose, che però poi si produce in una ricerca della disciplina e dell’applicazione.

Poi la Presenza, credo di essere una persona presente.

Questo è anche un grosso limite, quello di essere sempre presente, al presente, a quello che sto facendo, che mi porta tendenzialmente a rimuovere le cose passate che finiscono per non interessarmi più.

Quindi a vivere senza grossi sguardi verso il passato e anche leggermente sbilanciato verso il futuro prossimo, ma non quello davvero lontano.

10. Se dovessi scegliere tre cose di cui non potresti mai fare a meno, ovviamente escludendo la scrittura, quali sarebbero? 

La mia famiglia, le persone che mi circondano, la seconda cosa sono certamente gli amici, pochi, ma molto vicini, anche se non sempre ci vediamo e ci frequentiamo con costanza e la terza cosa di cui non potrei davvero fare a meno è una totale indipendenza e fare le cose che faccio come le voglio fare, il che comporta anche poter scegliere le persone con cui farle oltre che a come farle.

11. Prima di salutarci quale messaggio o augurio ti piacerebbe lasciare ai nostri lettori?

Ai lettori auguro di trovare dei libri che li facciano completamente andare via dalla loro vita, da quel che gli accade e che li portino davvero totalmente da un’altra parte per poi riconsegnarli alla loro vita cambiati, non dico migliorati, ma con la capacità di sentire la vita con maggiore intensità e ovviamente io mi auguro che uno di questi libri che possa operare questo tipo di viaggio sia uno dei miei per loro.

Thriller Life ringrazia Davide Longo per la disponibilità

a cura di Carteccio e Patty Pici