
Giorgio Nisini
Giorgio Nisini è nato a Viterbo nel 1974.
Scrittore e saggista, è ricercatore in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma.
Ha pubblicato numerosi studi sulla narrativa italiana del Novecento e sui rapporti tra letteratura, editoria e industria culturale.
Giorgio Nisini ha consolidato una solida esperienza nell’ambito dell’organizzazione culturale, che lo vede impegnato in molteplici eventi letterari, così come con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
Dal 2019 coordina, per conto di Roma Lazio Film Commission e Fondazione Bellonci, il progetto L’immagine stregata, dedicato alla promozione dei libri finalisti al Premio Strega presso le produzioni audiovisive italiane ed estere.
Nel 2008 pubblica il suo primo romanzo, La demolizione del Mammut, con cui vince il Premio Corrado Alvaro Opera Prima e arriva tra i cinque finalisti del premio Tondelli.
Il suo secondo romanzo, La città di Adamo (Fazi, 2011), viene selezionato tra i dodici finalisti della LXV Edizione del Premio Strega.

Nel 2015 esce, sempre per Fazi, La lottatrice di sumo, che insieme ai volumi precedenti compone quella che l’autore ha definito Trilogia dell’incertezza.
Per HarperCollins ha pubblicato i romanzi Il tempo umano (2020) e Aurora (2023).
“ Nisini utilizza lo strumento della fiaba per indagare in un crescendo introspettivo ed emozionale le relazioni umane, regalando al lettore spunti di riflessione su tematiche attuali e un colpo di teatro finale che colloca il romanzo ben oltre la “semplice” rilettura della fiaba stessa. ”
Claudia Pieri ha recensito per Thriller Life il recente romanzo di Giorgio Nisini, Aurora, QUI.
Giorgio Nisini ha gentilmente accettato di rispondere alle nostre domande
1. Aurora è un romanzo ben ancorato nella contemporaneità, che rielabora, andando poi oltre, la fiaba di La bella addormentata nel bosco. Da dove scaturisce la scelta di questa fiaba in particolare? Le fiabe hanno sempre narrato i lati più oscuri dell’animo umano e, rivestite di una patina di leggerezza e moralismo, sono state date in pasto a generazioni di bambini terrorizzati. La tua fiaba, Giorgio, vuole togliere il disincanto e pescare nel fondale delle nostre paure?
Fin da bambino la figura della Bella addormentata nel bosco mi trasmetteva un sentimento di forte inquietudine.
Solo da adulto ho capito che quella antica fiaba mi metteva a confronto con due sentimenti molto diversi tra loro, direi contrapposti, ma anche antichissimi e profondamente umani: la paura di non svegliarsi più, che è poi la paura della morte, e il desiderio di svegliarsi ancora, che è il desiderio di immortalità, il “desiderio di paradiso”.
Ho allora capito che il nodo della fiaba è ancora attualissimo, gioca proprio su entrambi i fronti, disincanto e paura: non ho fatto altro che portare la fiaba dentro un romanzo contemporaneo.
2. Le derive di ogni scelta umana, l’imperscrutabilità delle vicende che ci coinvolgono, sono al centro della storia di Aurora e inducono il lettore sensibile ad ascoltare la melodia che sussurrano le frasi, rendendolo elemento attivo della narrazione. Toccare le corde più sensibili e sotterranee del sentire umano sembra sia la tua cifra stilistica. È l’obiettivo a cui tendi?
Forse è uno degli obiettivi: vorrei che il lettore, entrando nelle mie storie, vivesse un’esperienza che lo scuote, lo turba, lo emoziona, lo spinge a una qualche forma di interrogazione con se stesso e con le sue paure.
3. “da quando aveva compiuto 50 anni, gli accadeva spesso di provare un forte senso di nostalgia ...”
“… Il tempo che fugge via, le aspettative della giovinezza, le persone venute a mancare...”
Il tempo e il suo trascorrere è una tematica ricorrente nei tuoi romanzi, penso a Il tempo umano, romanzo che ha preceduto Aurora. Risenti in qualche modo del fascino di quel tempo sospeso proustiano oppure il suo scorrere ha una valenza più materiale per te?
Il tempo è sempre stato per me un concetto importante e pressante, nel senso che mi lascio sedurre da tutto ciò che lo riguarda: dalla riflessione filosofica, ad esempio quella classica di Bergson, che sta dietro a Proust, alle più avanzate teorie della fisica quantistica, a tutte le produzioni artistiche e letterarie che lo mettono in primo piano.
Non ha dunque valenza materiale, ma concettuale ed esperienziale: mi interessa il “sentimento del tempo”, per dirla con Ungaretti, ma anche la conoscenza del tempo.
Tutto questo ovviamente si riflette anche nella mia scrittura.
4. Le tue storie sono sempre ben radicate in un contesto familiare, ambito in cui i personaggi devono in qualche modo togliere le maschere di fronte ai tranelli della vita. La famiglia è l’ambiente in cui trovare forza e sostegno, oppure il luogo in cui non si può fuggire a sé stessi? Trappola o rifugio?
Non esiste una risposta netta, ogni famiglia è un’esperienza a parte, esistono famiglie-rifugio e famiglie-trappola, oppure famiglie che sono un po’ tutte e due le cose insieme, ma anche famiglie che sono altro ancora: famiglie palude, famiglie monastero, anti-famiglie, famiglie monadi, famiglie arcipelago ecc.
In fondo la vita umana è caratterizzata dalla complessità e dalla molteplicità, se vuoi raccontarla devi confrontarti con mille misure diverse.
5. “Aveva la sensazione che i ragazzi di quell’età non fossero abili a elaborare il dolore, di qualunque natura esso fosse…. rischiava di ricadere nello stereotipato pregiudizio della degradazione epocale”
Lo stereotipo della “degradazione epocale” ultimamente è assai frequente, tu, che per la tua professione di docente universitario sei a contatto con i giovani, cosa ne pensi, ravvisi un peggioramento delle nuove generazioni rispetto alle precedenti e, se sì, in cosa?
Nel libro lo definisco un pregiudizio, ma perché è effettivamente così, è un luogo comune di cui ognuno ha esperienza diretta: i padri ritengono che la propria epoca sia stata migliore di quella dei figli, i nonni fanno altrettanto rispetto all’epoca dei padri.
Però è una distorsione interpretativa, ci sono epoche migliori ed poche peggiori, io sono cresciuto tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, che nonostante tutti i lati d’ombra era oggettivamente un’epoca migliore rispetto a quella in cui è cresciuto mio padre, tra gli anni Trenta e Quaranta.
Se però esco dai luoghi comuni, penso che le nuove generazioni abbiano tante più possibilità e tante più occasioni rispetto alla mia, ma soffrano anche di esperienze perdute, di rischi: sono molto più fragili, cresciuti con troppe protezioni, confusi nelle loro identità.
Ma ce la faranno e faranno cose belle.
6. “I social network li aveva completamente banditi, le apparivano più che mai luoghi della solitudine e delle nevrosi…” questo è il rapporto che ha Carola col mondo dei social e il tuo qual è?
Un rapporto di continua negoziazione.
Uso i social soprattutto per lavoro e per avere più rapidi contatti con le persone, ma vorrei che interferissero meno nella mia vita e in quelli della società in genere.
Passo quindi sani momenti di disintossicazione.
In genere però – basta andare sui miei profili per notarlo – ne faccio un uso molto moderato rispetto alla media.
Insomma, non sono uno che espone di continuo la propria vita sui social: preferisco vivere che fotografare la mia vita.
7. Cinema, insegnamento, scrittura; sono i vari campi in cui ti vediamo impegnato e che descrivono le varie modalità dell’espressività umana. Quale campo artistico soddisfa maggiormente il tuo bisogno di comunicare?
Senza dubbio la scrittura, che resta la mia prima forma di espressione e di comunicazione, perché mi mette allo scoperto con me stesso e con i miei lettori.
8. “Scrivere di una persona reale scrivere di un personaggio immaginato alla fine dei conti è la stessa cosa: bisogna ottenere il massimo nell’immaginazione di chi legge utilizzando il poco che il linguaggio ci offre” E. Trevi.
Quanto è cambiato l’impatto che hanno le parole sull’immaginazione dei lettori? Ho l’impressione che la nostra percezione si sia acuita a tal punto che lo scrittore abbia bisogno di sintonizzare le sue frasi su tonalità sempre più elevate.
È una domanda bella e complessa.
Emanuele Trevi, da autore di autofiction, lavora su un particolare tipo di immaginazione che si sviluppa da una forte aderenza alla sua vita personale, mentre io su un’immaginazione che parte da uno scarto con la mia vita.
Ma in entrambi i casi, in questo ha ragione, la lingua compie lo stesso sforzo.
Oggi però la lingua deve confrontarsi con mille altri linguaggi, molto più invasivi, e con un pubblico che sicuramente ha una percezione acuita delle cose; però anche anestetizzata: siamo anestetizzati dalle troppe sollecitazioni.
La letteratura ha la grande possibilità di lavorare e insinuarsi nelle zone emotive più disorientate e narcotizzate.
9. Passando alle domande più leggere, vuoi raccontarti a noi con tre aggettivi che ti contraddistinguono?
Te ne dico quattro: onnivoro (di esperienze e di vita), programmatore (nel senso che ho sempre agende e calendari che danno ritmo al mio tempo e al mio lavoro), ansioso (la mia grande lotta), tollerante (lo considero il mio più grande pregio, non giudico, accolgo, ascolto).
10. Se dovessi scegliere tre cose di cui non potresti mai fare a meno, ovviamente escludendo la scrittura, quali sarebbero?
I miei figli, i miei luoghi, la voglia di imparare tramite ogni mezzo: leggendo, studiando, facendo esperienza delle cose.
11. Prima di salutarci quale messaggio o augurio ti piacerebbe lasciare ai nostri lettori?
Che continuino sempre ad essere quello che sono: lettori.
Thriller Life ringrazia Giorgio Nisini per la gentilezza
a cura di Claudia Pieri ( Leggerefabene ) e Patty Pici