Chiara Fina: L’estate brucia ancora

Chiara Fina

Chiara Fina

Nata nel 1991, vive a Campi Salentina, è laureata in Lettere classiche e insegna italiano e storia presso gli istituti secondari di secondo grado di Brindisi.

Ha svolto un master in editoria e comunicazione a Roma e ha effettuato uno stage presso la casa editrice Marcos y Marcos.

L’estate brucia ancora è il suo romanzo d’esordio.

Di recente è stata candidata al Premio Fiesole narrativa under 40, 2023.

Dieci piccole verità

  1. La storia del tuo romanzo gioca su vari piani temporali: un presente ambientato prima del 2020, e quindi della pandemia, e un passato che si sposta tra la fine degli anni ’80 e ’90.

Il costante ritorno al passato da parte delle due protagoniste suggerisce che in questa vicenda il ricordo abbia una valenza superiore, se non equipollente, a quella del momento attuale. Come mai il passato è tanto importante?

In generale la ‘storia’ è molto importante per me, perché è lo studio di fatti antecedenti al presente attraverso l’uso di testimonianze, di tracce rimaste sepolte.

La vicenda di Emma e Carlotta (quest’ultima protagonista e voce narrante) racconta proprio di questo: il recupero di un ricordo che, solo in apparenza, sembra non avere più alcun peso sulla realtà: da qui il bisogno di strutturare la narrazione in capitoli alternati in cui il passato e il presente si abbracciassero fra loro. 

Volevo diventassero un’unica cosa, recando in sé le medesime storture, gli stessi gradi di bellezza e di potere l’uno sull’altro. 

In un passaggio del libro li considero come due stanze comunicanti, divise soltanto da una parete: quando in una delle due accade un rumore, il suono si trasmette anche dall’altra parte. 

Il rumore del passato riempie la vita di Carlotta fino a quando per lei diventa impossibile sottrarsi all’ascolto. Alla fine è quasi costretta a ricordare ciò che è accaduto nel proprio passato e in quello di Emma (l’altro personaggio principale).

Per questa ragione il mio libro s’intitola L’estate brucia ancora: il nucleo caldo del romanzo è il ricordo bruciante di un’estate che trova sempre il modo di rinverdire le proprie braci.   

  1. “L’estate brucia ancora” potrebbe essere considerato il racconto di una violenza. Secondo te è così?

È una domanda che mi pongono in tanti. 

Per me, L’estate brucia ancora è anche il racconto di una violenza, ma non solo. 

Nel primo romanzo, io credo, un autore tende a riversare tutto quello che sente, che gli sta più a cuore e che lo agita positivamente. Il tema della violenza è la polpa di questa storia, ma non ne costituisce il vero nocciolo. 

Da autrice, avvertivo l’esigenza di guardare alla storia di Emma e Carlotta da diverse angolature. In modo particolare mi sono concentrata sulle conseguenze che il trauma radica nella loro amicizia. Un legame difficile e imperfetto, che a volte sa essere accogliente e altre respingente. Un rogo e al contempo un’acquasantiera.

Oltre a questo, nel romanzo si affrontano varie tematiche, a cominciare dalla crescita femminile: il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Tutto ciò attraverso la gestione del corpo, questo grosso guscio che nel libro sembra quasi un essere pensante, capace di trasformarsi in un terriccio fertile per i ricordi. Per non parlare del rapporto tra genitori e figli, e dei diversi tipi di famiglia. Famiglie di sangue, famiglie desiderate, famiglie sfasciate. 

Volevo scrivere un romanzo che parlasse di tante cose e di tante violenze. Non solo di quella fisica.

  1. Mi ha molto colpita questa considerazione di Carlotta nel momento in cui si reca all’ufficio postale insieme a Bodhi per spedire una lettera a Emma: “Ci guardavano con disprezzo, prendevano le distanze: la nostra reputazione ci precedeva. Lo spacciatore e la stuprata. Il principe della cannabis e la regina del niente”. Cosa vuole trasmettere o significare la figura di Bodhi nell’economia del romanzo?

Bodhi è un amico di Carlotta ed Emma, e mi è stato da subito chiaro che avrebbe dovuto svolgere un ruolo decisivo all’interno del loro piccolo ecosistema. 

Per me è il simbolo di una buona fetta della mia generazione e anche di quella precedente. Di persone che si lasciano guidare dalle proprie fragilità, invece di combatterle.

Quando immaginavo Bodhi, nelle prime fasi di stesura, volevo assomigliasse a un eroe della tragedia greca o del Romanticismo: un personaggio alla James Dean in Gioventù bruciata

Bodhi ha vent’anni quando lo incontriamo nel romanzo, è bello come un gesuita californiano (biondo, abbronzato ecc.), è un nuotatore professionista, un campione assodato per la comunità in cui vive (Cesinòle), e tuttavia possiede in sé una tensione verso l’infinito, e quindi verso il buio, che lo porta a sbandare nella vita. 

A un certo punto, perde tutti i ruoli che gli davano sicurezza e riconoscimento sociale. Diventa un ex bel ragazzo, un ex nuotare, un ex campione. Ma invece di ribellarsi ai propri fallimenti, decide di sguazzarci dentro, remando controcorrente rispetto alla massa dei suoi coetanei, o di chiunque si affanni per raggiungere il successo. 

  1. «Mi sono detto che forse a volte, l’incontro con il male è inevitabile […] Mi sono chiesto: siamo predestinati al male?»  

Queste parole di Guido rispecchiano il tuo pensiero o rispetto al tema del male hai una diversa opinione?

Sono d’accordo solo in parte.

Non credo nel concetto di ‘predestinazione’: mi piace pensare che ciascuno di noi sia agente e motore della propria esistenza. 

Tuttavia non nego la ferinità dell’essere umano. In quanto persone, dotate di fiato e organi, siamo soggetti anche ai nostri istinti più bassi. Il punto, secondo me, è imparare a conoscersi e a educarsi affinché non ci si lasci andare mai alla violenza. 

Le zone d’ombra sono sicuramente presenti in ciascuno di noi, ma diventano ‘male’ quando mancano la cultura e il controllo di sé. 

  1. Come si pone questo libro nel panorama narrativo attuale? A quale filone lo ascriveresti?

Non avevo un genere preciso in mente quando ho iniziato a scrivere. 

La mia agente, Carmen Prestia, tempo fa mi disse che il mio libro sarebbe potuto rientrare nel filone psicologico, oppure nel giallo (per via della forte suspense che tende il filo della narrazione), o nei libri di formazione (poiché attraversa le vicende dei personaggi durante la loro crescita).

Inconsciamente, credo di avere creato un romanzo ibrido, come ibride sono le due adolescenti al centro della storia. Come ibrida è l’adolescenza stessa: una stagione apicale della vita, in cui si esce per la prima volta dalla bolla domestica per conoscere il mondo. Gli adolescenti sono esploratori chiamati alla scoperta, alle prime volte, a fare cose anche in contraddizione fra loro. E questo romanzo dunque ruba elementi da vari generi letterari, senza volerne assumere le forme e gli ingabbiamenti. 

  1. Ogni scrittore nasce prima di tutto lettore. C’è un libro che potresti definire la tua coperta di Linus?

Sicuramente, Non ti muovere, di Margaret Mazzantini. 

È il libro che rileggo più spesso, quando avverto una mancanza a cui non so nemmeno io dare un nome. Leggo quelle pagine, e anche se ancora non so chiamare con precisione quella lacuna, le parole di quel romanzomi aiutano a trovare il rimedio.

  1. Quali sono i Maestri o i nuovi metodi espressivi da cui prendi spunto o a cui vorresti essere paragonata?

I miei maestri sono tantissimi e vari. Di nuovo, Margaret Mazzantini, Truman Capote, Jeffrey Eugenides, Michael Cunningham, Nicola Lagioia, Mario Desiati e molti altri. 

Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, mi mette in imbarazzo l’idea di essere paragonata a loro o ad altri. Non vorrei nemmeno essere paragonata a me stessa. Mi piacerebbe avere l’opportunità di cambiare, di scrivere ogni volta qualcosa di diverso e fresco, pur mantenendo alcune tematiche a cui sono legata.

  1. Qual è l’urgenza che ti spinge a scrivere?

Non esiste una singola urgenza in questo senso, ne ho davvero tante di urgenze.

Per farla breve però, quando scrivo, non cerco semplicemente di evadere dal mio presente. Cerco la libertà più assoluta. Emma e Carlotta sono nate da quella fame di libertà. 

  1. La dinamica del tuo processo creativo, l’architettura su cui fondi le tue storie prendono vita in modo spontaneo, oppure necessitano di una spinta disciplinata e di organizzazione?

Costruire la trama è abbastanza immediato. Parto sempre da un’indagine-descrizione dei luoghi e dei corpi che li abitano, e poi arrivo gradualmente a comprendere la psicologia dei personaggi. 

Spesso, cerco anche un simbolo che mi aiuti a rivelarne le pulsioni e i comportanti. Nell’immaginario di L’estate brucia ancora, per esempio, Emma è come il fuoco; Carlotta è il ramo d’ulivo di cui lei si serve per bruciare. 

La struttura è invece la parte che mi diverte di più e che mi fa disperare davvero, perché mi vengono in mente scene e archi temporali che in apparenza non hanno alcun legame: la parte difficile e divertente è incastrarli nel modo più armonico possibile. 

Non sono una scrittrice con un metodo, non mi segno una scaletta con tutto ciò che secondo me dovrebbe accadere. Mi lascio guidare dall’immaginazione e allo stesso tempo cerco di domarla come posso.

  1. Un consiglio ai nuovi scrittori esordienti.

Essendo un’autrice esordiente, non credo di essere adatta a dispensare consigli. 

Una volta però, durante la presentazione di un suo libro a Milano, un autore che ammiro molto mi diede questo consiglio: Chi scrive dovrebbe sempre avere in mente un finale per la propria storia.

Devo ammettere che per la maggior parte della stesura del mio romanzo, mi sono sentita in estremo difetto nei confronti di quell’ottimo suggerimento, perché il solo pensiero che la storia di Emma e Carlotta avesse una fine mi destabilizzava. Ho rimandato il più possibile il momento di capire come terminare il romanzo. E anche se scrivevo cercando di adeguarmi a quel consiglio, in realtà nella pratica facevo tutto l’opposto. 

Il mio consiglio potrebbe essere: scrivete secondo le vostre regole, senza mai negare quelle degli altri. 

a cura di Elide Stagnetti

Chiara Fina- L'estate brucia ancora

L’estate brucia ancora

Guanda editore

Recensione di Elide Stagnetti

Càpita quasi sempre che un libro venga definito attraverso l’etichetta del genere letterario cui appartiene o attraverso l’indicazione della sua tematica principale.

Per alcuni libri, però, queste etichette risultano estremamente riduttive e si mostrano inadeguate a descriverli in modo esaustivo. 

Così accade che, nel recensire il romanzo d’esordio di Chiara Fina, “L’estate brucia ancora”, non si riesca a ‘incasellarlo’ in una definizione univoca, ma sia necessario proporne almeno tre o quattro diverse, per avere un’idea un po’ più completa di questo testo tanto profondo e sfaccettato, supportato, per di più, da una scrittura poetica ed evocativa, ricchissima di simboli e di figure. 

Storia di un’amicizia, storia di una violenza, romanzo psicologico, romanzo di formazione…sono tante, e tutte giuste (eppure non bastano), le definizioni che potrebbero essere associate a questo libro.

L’amicizia è quella, intensa, radicale, anche contraddittoria, che lega per anni le due protagoniste, Emma e Carlotta. Un rapporto che si sviluppa sul filo del tempo, tra momenti di sintonia e allontanamenti, tra tradimenti e offerte di pace, dall’estate dei loro tredici anni, nel 1986, fino all’età adulta. 

Rapporto viscerale, spesso a senso unico (“Io senza Emma non ero nessuno”), mantenuto in essere dalla testardaggine di Carlotta, nonostante le fughe, le bugie, i capricci di Emma.

“La cosa che più desideravo nella vita era diventare la sua migliore amica”.

Emma, bellissima e sfuggente, che si concede e si ritrae, aliena in un certo senso (anche lei) nel suo essere mezza irlandese, figlia di una coppia ‘strana’ di hippy, capace di affascinare chiunque le si accosti, con quei capelli rossi che sono un marchio inconfondibile di alterità:

“E più lati di sé mi mostrava, più mi lasciavo ammaliare da lei e andavo alla cieca, accarezzando la fluidità di quella figura femminea che racchiudeva in sé un mondo diverso. Capelli color rame, pelle di luna, jeans aderenti”.

Ma l’amicizia tra le due tredicenni è appena nata quando Carlotta, sul finire di un’estate, subisce la violenza che poi stravolge le loro vite. 

L’incontro con “l’alieno” è l’atto fondante della loro relazione, non la determina in assoluto, ma le imprime uno sviluppo del tutto diverso da quello che sarebbe stato, le stringe in un legame impossibile da districare e le rende sole contro il resto del mondo.

“Non era l’amicizia a legarci, ma lo stupro. Io l’avevo subito, lei lo aveva permesso”. 

“Ormai eravamo noi contro loro. Eravamo le ragazze dell’alieno”.

La violenza fa da spartiacque, crea un (brevissimo) prima e un (infernale) dopo. 

La voce narrante di Carlotta ci guida attraverso un’analisi dettagliata della propria vita interiore, a partire dal momento stesso in cui inizia quel ‘dopo’ e lei si risveglia in ospedale, e non sa che ha dormito due giorni di fila, non ricorda esattamente cosa sia accaduto, però, sebbene confusamente, capisce che la sua infanzia è finita e che le è stata sottratta “come un cappello che ti vola via dalla testa”.

Da allora, l’esistenza di Carlotta è vissuta tutta ‘in levare’: rifiuto del cibo, del corpo, delle figure maschili.

“Da quel momento, nessun uomo ha potuto più toccarmi, avvicinarmi o parlarmi”. 

Incastrata per sempre in una logica vittimistica, ormai quarantacinquenne, è lucidissima e, come sempre, spietata con sé stessa, quando dice:

“Negarmi la soluzione di un particolare bisogno è la mia specialità […]Dicevo di no a qualunque cosa”. 

Il continuo oscillare avanti e indietro nel tempo si accompagna alla scoperta graduale degli eventi accaduti nella vita delle due protagoniste, in un racconto non lineare, ma che sembra strutturato appositamente per rispecchiare le tortuosità della psicologia di Carlotta.