Naturalista, musicista e autore di romanzi, tre ambiti diversi uniti dal filo conduttore di un indiscutibile talento come quello di Giuseppe Festa, che a queste sue passioni ha lasciato da sempre lo spazio per contaminarsi, ispirarsi e influenzarsi a vicenda.
I suoi romanzi nascono e si sviluppano intorno a un’idea che può essere sollecitata da eventi, accadimenti o situazioni che lo colpiscono e, intorno a questa idea, Giuseppe dipana e coniuga la trama e le caratterizzazioni dei personaggi a cui, pur essendo ben delineati prima di cominciare, lascia la possibilità di raccontare qualcosa in più nell’evolversi della storia.
Autore e persona di grande sensibilità e acume, con i suoi romanzi ha vinto molti premi, a partire da Il passaggio dell’orso (2013) che ha segnato il suo esordio letterario, seguito poi da L’ombra del gattopardo (2014), La luna è dei lupi (2016), Cento passi per volare e I figli del bosco (entrambi nel 2018), fino a I lucci della via Lago (2021) con cui si aggiudica il Premio Rodari.
Il suo ultimo romanzo, il primo che dedica al thriller, è Una trappola d’aria uscito per i tipi di Longanesi, ambientato in una terra che ama moltissimo, la Norvegia. Pur tenendo fede al suo percorso artistico, Giuseppe in questo romanzo disegna il male in modo tangibile e molto ben delineato, con un ritmo incalzante e una scrittura veramente sorprendente.
Giuseppe ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune nostre domande.
Leggendo il tuo libro, si rimane colpiti dall’abilità con cui sei riuscito ad utilizzare e modellare il genere del thriller per metterlo a servizio della grande protagonista della storia, la natura, intesa nel suo senso più ampio. Che si parli della bellezza dell’ambientazione, del lavoro di Valentina o delle uniche vere vittime incolpevoli di questa storia, è sempre verso la natura che il tuo sguardo sembra puntare, portando al centro dell’attenzione il rapporto tra l’essere umano e la natura di cui fa parte. Quanto ha influito la tua formazione di naturalista in questa scelta? E’ questa la suggestione che volevi lasciare nel lettore?
Il rapporto con la natura è stato sempre al centro della mia vita, prima da musicista, poi da educatore ambientale e infine da scrittore. Volevo fortemente rimanere fedele a questo nucleo tematico anche nel mio primo thriller: il rapporto con la Terra è una radice profonda che mi fa sentire sincero con me stesso e con i miei lettori.
Inoltre avevo un debito di riconoscenza con la Norvegia: andai alle Lofoten da ragazzo e rimasi folgorato dalla selvaggia bellezza della natura scandinava. Una natura che può essere matrigna spietata o madre dolcissima.
Con me è stata madre, e mi ha indicato la strada.
Per uno scrittore italiano è spesso considerato poco conveniente ambientare le proprie storie in qualsiasi luogo diverso dalla rassicurante provincia che ormai definisce quello che è un vero e proprio sottogenere: quante difficoltà hai trovato con una ambientazione così distante geograficamente e culturalmente dal nostro paese, e quanto è stato complicato parlare della Norvegia degli anni novanta?
È vero, la convenienza ad ambientare una storia in Italia è un ritornello che i thrilleristi italiani si sentono ripetere molto spesso.
Ma in questo caso, è stata la trama stessa a scegliere l’ambientazione.
Sono convinto che Una trappola d’aria sarebbe apparsa del tutto fuori luogo in un set italiano. E poi, essendo un amante della Norvegia, la scelta non è stata poi così difficile. Come ho accennato prima, l’ho visitata per la prima volta a vent’anni, in un momento molto cupo della mia vita in cui presente e futuro mi sembravano una prigione. Decisi di partire verso il Grande Nord, senza sapere nemmeno cosa stavo cercando.
Quel viaggio mi rigenerò, facendomi capire cosa volevo fare davvero da grande.
Tornato in Italia, cambiai completamente vita: città, Università e lavoro. La conservazione della natura diventò il perno attorno al quale far ruotare tutto. Nel corso degli anni sono tornato spesso in Norvegia e ho imparato a conoscere meglio la sua natura e i suoi abitanti, molto distanti dallo stereotipo di chiusura e freddezza a cui siamo abituati.
Per quanto riguarda il periodo storico, le Lofoten del mio primo viaggio negli anni novanta mi sono sembrate identiche a quelle che ho visitato di recente. Per fortuna!
Parlando degli anni Novanta: un periodo storico che comincia ad affacciarsi con frequenza negli universi narrativi più recenti, sia in televisione che in letteratura. Secondo te è una scelta dettata da un maggior agio nello sviluppare la narrazione liberi dalla pervasività di internet, cellulari, telecamere e test genetici o è una sorta di nostalgia del periodo passato che ha bisogno di essere rivalutato?
Per me valgono entrambe le cose. Da un lato, sono un nostalgico dei rapporti pre-virtuali, liberi da chat e social. Dall’altro, mi piace che un detective possa avvalersi di tecniche investigative più intuitive e analogiche. Ma più di tutto, nella mia scelta ha contato una considerazione molto semplice: con celle telefoniche, telecamere e via dicendo, il killer di Una trappola d’aria sarebbe stato arrestato in 5 minuti netti.
Nel tuo romanzo si parla della natura in modo non elegiaco, descrivendo anche la difficoltà e la durezza della vita rurale, che sembra contrastare con la visione forse un po’ romantica dei Legionari: un giudizio verso un certo naturalismo Disneyano o una semplice esigenza narrativa? Come dovrebbe essere secondo te il rapporto tra questi due grandi universi, quello umano e quello animale?
Nei miei libri, anche in quelli per ragazzi, non ho mai nascosto gli aspetti più crudi e duri del mondo naturale, descrivendo i comportamenti animali per quello che sono. Un lupo o un orso non sono né buoni né cattivi, sono animali che seguono il loro istinto.
Antropomorfizzarli alla Disney è molto rischioso, poiché filtrando i loro comportamenti con l’etica umana finiamo inevitabilmente per giudicarli. Un lupo che uccide un altro lupo non è un assassino, come uno scoiattolo che si impossessa del territorio di un vicino non è un ladro. Per quanto riguarda il rapporto tra questi due universi, animale e umano, sarebbe già un grande passo se ci rendessimo conto che i due mondi in realtà coincidono.
Il nostro destino è legato a quello delle altre creature e viceversa. È un concetto elementare eppure l’uomo moderno fatica a farlo proprio. Lo avevano compreso perfettamente le popolazioni native, secoli fa. Capo Seath, in un suo famoso discorso, diceva:
«L’uomo bianco deve trattare gli animali come suoi fratelli. Sono un selvaggio, e non capisco nessun altro modo. Se tutti gli animali scomparissero, gli uomini morirebbero per la grande solitudine del loro spirito. Perché qualsiasi cosa accade agli animali, presto accade anche all’uomo. Tutte le cose sono collegate, come i fili di una ragnatela. L’uomo non tesse la trama della vita, egli è solo un filo di essa.»
Dovremmo far nostre le sue parole, prima che sia troppo tardi.
Sei passato dai romanzi per ragazzi al thriller ma, riguardo alle tematiche, il centro del tuo interesse non sembra essersi spostato: è una sensazione che corrisponde al tuo sentire? Quanto è importante la scelta del genere rispetto a quello che un autore vuole dire al suo pubblico?
A mio parere il genere non è così importante. Si può parlare del nostro posto sulla Terra facendo parlare un lupo del branco della Sibilla, seguendo le avventure di una banda di animali strambi oppure osservando la dedizione con cui Valentina studia le balene.
E persino attraverso lo sguardo distorto di un killer che si illude, sbagliando, di vendicare la natura giustiziando chi l’ha sfregiata.
Se dovessi indicare tre parole che ti rappresentano, quali sarebbero?
Caparbietà, ottimismo, creatività.
(in realtà non sapevo come rispondere e ho chiesto aiuto a mia moglie… È stata magnanima).
Se dovessi scegliere tre cose di cui non potresti mai fare a meno, ovviamente escludendo la scrittura, quali sarebbero?
Le battute di mia moglie Sara (ancora lei!), la musica (ascoltata e suonata), il caffè e il giornale nelle mattine d’estate.
Prima di salutarci e anzi, proprio per inaugurare un saluto di eccezione, che messaggio o augurio ti piacerebbe lasciare ai nostri lettori?
Leggere un thriller appaga un nostro bisogno primario: fare luce nelle stanze buie, svelando ed esorcizzando ciò che è ignoto, che ci spaventa.
Ecco, a tutti i lettori auguro di lasciare sempre un angolo buio da qualche parte. Per tenere acceso il desiderio di esplorare, ma anche per ricordarci quanto può essere bella la luce.
ThrillerLife ringrazia Giuseppe Festa
a cura di Alessandra Panzini e Giovanni Jonvalli