Francesca Violi nasce a Reggio Emilia e si trasferisce in provincia Treviso. Si laurea in architettura al Politecnico di Milano, ma il suo immenso amore per la scrittura è talmente potente e viscerale da portarla ad affrontare un percorso diverso, che oggi percorre con solidità e talento. Nel 2009 La balia, un suo racconto, è stato finalista al Premio Loria. Nel 2010 Fernandel Editore pubblica sulla propria rivista la raccolta di racconti Un anno a Casale Nuovo, e nel 2020 Elliot pubblica il suo primo romanzo, Sulla riva.
Uno dei suoi punti di forza è la tridimensionalità che riesce a regalare ai propri personaggi, l’immedesimazione nei quali è spesso così immediata da portare il lettore a scavare dentro sé stesso per cercare le risposte alle domande implicite che vengono poste durante la lettura.
La perdita e il dolore sono temi ricorrenti nella sua narrazione, così come l’insondabilità dell’animo umano. Anche nel suo ultimo libro, L’abbaglio, il tema trattato è spunto di interessanti riflessioni sul mondo che ci circonda, e in particolare sulla medicina alternativa. Viene narrata la lenta ma inesorabile discesa nell’abisso della protagonista, sconvolta dalla perdita del padre, e potete trovare QUI la nostra recensione.
Francesca Violi ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune nostre domande.
Nel tuo nuovo libro, L’abbaglio, descrivi in maniera accurata il mondo dell’omeopatia, del riequilibrio energetico, delle cure alternative e dell’approccio olistico secondo il quale il nostro corpo deve essere considerato come un’unica unità. Che rapporto hai con questo genere di cose?
Anch’io considero il nostro corpo (corpo, mente, anima) un’unità, ma allo stesso tempo sono scettica verso pratiche e rimedi la cui efficacia non è mai stata dimostrata. Quando i miei figli erano piccoli, una decina di anni fa, negli ambienti che frequentavo sempre più spesso mi sentivo dire cose come: ma non lo sai che i vaccini fanno venire l’autismo? O: le malattie nascono tutte da un conflitto interiore, non servono le medicine per guarirle. Approfondendo, ho scoperto un mondo sorprendente, di cibi miracolosi, di vibrazioni ed energie sottili, di metodi di guarigione semplicissimi per le malattie più gravi. Un mondo che interessa salute, alimentazione, benessere, stile di vita: ma in cui spesso, ed è questa la cosa che tuttora mi colpisce di più, si avverte in chi vi aderisce un grande investimento emotivo ed identitario. Non è una semplice scelta funzionale: è parte di una visione del mondo in cui ci si riconosce. Per anni ho letto con avidità sia forum e siti “alternativi”, che inchieste, libri, blog di debunking. A turbarmi sono state soprattutto le vicende di persone che hanno avuto tale fede nella loro visione del mondo “alternativa” da mettere in gioco, contro ogni evidenza razionale, la vita di un figlio, o la propria. E che l’hanno persa. Pensavo al momento raggelante in cui queste persone si sono rese conto dell’esito ormai irreversibile della loro scelta. È questo il germe da cui è nato L’abbaglio.
In questo romanzo ognuno è vittima o carnefice a seconda del punto di vista da cui lo si guarda. Non c’è una distinzione netta, è tutto rimodulabile sulla base delle convinzioni personali. Credi che sia così anche nella realtà?
Credo che in generale la nostra coscienza ci segnali abbastanza chiaramente quando stiamo facendo qualcosa di sbagliato. Certo bisogna avere la forza di darle ascolto, anche quando dice cose dolorose, che non vorremmo sentire perché ci obbligano a guardare in faccia i nostri errori, le nostre mancanze. A volte invece preferiamo raccontarci la versione più comoda, quella che ci dà ragione: in questa tasca buia della coscienza il male può trovare un luogo protetto e fertile in cui crescere. È questo che ho cercato di mettere in scena nel romanzo.
Tutti i personaggi sono ben delineati e caratterizzati. Ce n’è uno in particolare al quale ti senti più legata?
Ho un debole per Fulvio, il fondatore del rifugio per cani abbandonati, che ha accolto Rudy e gli ha trasmesso una ragione di vita, una missione. Inizialmente Fulvio aveva un ruolo abbastanza marginale nella storia; man mano che lavoravo al romanzo però il suo personaggio ha acquisito importanza e complessità, e mi ci sono affezionata.
Durante la storia incontriamo tantissimi cani. Che rapporto hai con loro?
Un libro che amai molto da ragazzina è “Il richiamo della foresta”, di Jack London, il cui protagonista è il cane Buck. Ma nella vita sono gattara fino al midollo. Non c’è dubbio che i gatti siano superiori a tutte le altre forme di vita, o almeno i miei tre sembrano esserne convinti: forse perché sono influenzata dal loro punto di vista, i cani, con la loro fiducia e l’entusiasmo disarmante, mi appaiono come creature particolarmente innocenti e vulnerabili.
Se dovessi indicare tre parole che ti rappresentano, quali sarebbero?
“Storie, storie, storie.”
(La citazione, di Bernard Malamud, sarebbe così: “Storie, storie, storie. Per me non esiste altro (…) Le storie ci accompagneranno finché esisterà l’uomo. Lo si capisce, in parte, dall’effetto che hanno sui bambini. Grazie alle storie i bambini capiscono che il mistero non li ucciderà. Grazie alle storie scoprono di avere un futuro.”)
Se dovessi scegliere tre cose di cui non potresti mai fare a meno, ovviamente escludendo la scrittura, quali sarebbero?
Caffè. Ironia. Gatti (sì, i gatti non sono cose, lo so, ma è per fargli abbassare la cresta).
Prima di salutarci e anzi, proprio per inaugurare un saluto di eccezione, che messaggio o augurio ti piacerebbe lasciare ai nostri lettori?
Ciao lettori e lettrici, mi congedo con una frase che viene ripetuta più volte ne L’abbaglio: “Non si può rinascere se prima non si muore.”
ThrillerLife ringrazia Francesca Violi
a cura di Francesca Mengucci e Nina Palazzini