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L’isola del disinganno di Paulina Flores

l'isola del disinganno

L’isola del disinganno

Recensione di Samantha Placucci

Marcela ha trent’anni, il cuore spezzato e un lavoro che odia. Dopo qualche notte d’insonnia e troppo alcol, decide di mollare tutto e di partire per un viaggio alla fine del mondo. Così, lasciatasi la capitale alle spalle, raggiunge suo padre Miguel a Punta Arenas, ultimo avamposto della Patagonia cilena. Ad aspettarla laggiù, oltre al vento del Sud e allo stupore del padre, c’è un ospite inatteso: un marinaio coreano di nome Lee, che Miguel ha salvato da morte certa nelle gelide acque dello stretto di Magellano. Il ragazzo non parla la loro lingua, è solo e disorientato, e soprattutto nasconde un segreto. Da cosa sta scappando? E cos’è successo sulla nave da pesca che l’ha portato fin lì? Con uno stile essenziale, poetico e crudo insieme, Paulina Flores torna a giocare con il reale in un romanzo che ha il ritmo di una serie tv coreana – con tanto di colonna sonora K-pop –, e ci riempie gli occhi di paesaggi sconfinati e il cuore di domande più grandi di noi. Sono le stesse che si pongono i tre protagonisti: così vivi da sembrare persone in carne e ossa, ognuno con pregi, difetti e incertezze nei quali il lettore non potrà che riconoscersi. L’isola del disinganno è la storia di una fuga, di un mistero da decifrare, di un’avventura, di tre solitudini che si incontrano in una terra imponente e magnifica, nell’istante in cui fare i conti con il passato sembra inevitabile.

Recensione

A volte la vita ci è talmente avversa che l’unica soluzione che ci rimane è scappare, ed è questo quello che fanno i protagonisti di questo romanzo: scappano; scappano da una vita che non gli appartiene, da una vita che non li soddisfa, da una vita che li tiene in catene.

Ne L’isola del disinganno troviamo due storie parallele che si svolgono in tempi e ambientazioni diverse.

In una di esse ci immergiamo in pagine crude e dure dove l’autrice racconta la condizione di schiavismo a cui sono sottoposti i marinai orientali che trovano volto in quello di Lee e dei suoi compagni di sventura. Attraverso le esperienze dei protagonisti, assistiamo ad una violenza che permea ogni cosa; le loro azioni, le loro parole, i loro gesti, gli scenari in cui si muovono, sprigionano un’intensa rabbia che devasta tutto e che arriva dritta a noi lettori.

Nell’altra invece troviamo: Marcela, una donna che ha perso il proprio baricentro dopo essere stata lasciata dal ragazzo e aver abbandonato un lavoro che non la rendeva felice, Miguel, padre di Marcela che da anni ha trovato rifugio a Punta Arenas, un piccolo centro della Patagonia continuamente sferzato dal vento, e Lee, un coreano che si è lanciato dalla nave in cui lavorava e che Miguel ha salvato dalle acque dello stretto di Magellano nascondendolo in casa propria.

Tre vite che si intrecciano, tre persone che hanno visto nella fuga l’unica soluzione possibile ma che non sanno dove stanno andando né come affrontare i mostri del proprio passato.

 Purtroppo le due storie non si amalgamano in modo armonioso all’interno della narrazione; se da una parte il racconto di quanto avviene sulle navi crea un background per il personaggio di Lee dall’altra sembra completamente slegato dalla storia che si snoda dopo il ritrovamento del naufrago.

La costruzione narrativa risulta confusa soprattutto nell’ultima parte: i passaggi fra un’ambientazione e l’altra sono continui e non si è mai del tutto sicuri di cosa si stia leggendo. Anche la scelta di introdurre un argomento come la persecuzione della popolazione mapuche a poche pagine dalla fine risulta poco vincente; per tutti noi profani che non conosciamo questa situazione, la descrizione del rito e la retata da parte della polizia, sembrano solo un riempitivo apparso dal nulla visto che poi l’autrice non sviluppa l’argomento.

La denuncia a quanto succede nei pescherecci risulta la parte più interessante della trama: una visione lucida e priva di filtri che ci racconta una condizione disumana della quale probabilmente non eravamo a conoscenza.

Il resto devo ammettere che non è riuscito a tenermi incollata alle pagine di questo libro; la trama è molto debole, tutto si appoggia solo sui dialoghi che si svolgono con il naufrago, dialoghi che risultano essere sempre a senso unico visto che Lee non parla e non capisce lo spagnolo.

Bello il messaggio che per comunicare si possa anche far a meno delle parole, ma i monologhi di Marcela su quanto sia triste per la rottura con il fidanzato sono stati noiosi, ripetitivi e soprattutto hanno creato un personaggio davvero difficile da amare.

Marcela è il personaggio che mi è piaciuto meno in un mare di personaggi con i quali, devo ammettere, non sono mai riuscita ad entrare in empatia; non sono riuscita a partecipare al loro dolore, a lottare con loro per trovare la redenzione.

Alla fine della lettura mi sono domandata più e più volte cosa non mi fosse piaciuto di loro e devo ammettere che è stato davvero difficile trovare una risposta; credo che la cosa che abbia fatto la differenza, in negativo, sia stata che i personaggi non hanno un’evoluzione: alla fine del libro li troviamo allo stesso punto in cui li avevamo trovati nelle prime pagine e soprattutto l’autrice non ci racconta se sono riusciti a trovare la forza di cambiare la propria vita.

Purtroppo è un romanzo che non mi ha conquistato: troppa confusione nella costruzione della trama, personaggi assolutamente dimenticabile, peccato perché ci sono degli spunti di riflessione davvero interessanti.

Traduzione: Giulia Zavagna
Editore: Marsilio
Pagine: 304
Anno pubblicazione: 2022

Paulina Flores

Paulina Flores (1988) è nata e cresciuta a Santiago del Cile. Ha esordito con la raccolta di racconti Che vergogna (Marsilio 2019), insignita con il premio Bolaño e selezionata da El País tra i dieci migliori libri del 2016. Acclamata da pubblico e critica – che l’ha definita la voce più importante della nuova letteratura cilena –, nel 2021 Flores è stata inserita da Granta nella sua lista dei venticinque migliori narratori under 35 di lingua spagnola.

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