Intervista a Marco Niro
Spazio a cura di: Claudia Pieri e Samuela Moro
Intervista di: Ketty Marchese
Oggi nel nostro spazio dedicato alle interviste abbiamo il piacere di ospitare lo scrittore e giornalista Marco Niro, fondatore insieme a Mattia Maistri del collettivo di scrittura Tersite Rossi.
Marco Niro, laureato in scienze della comunicazione, vanta al suo attivo diverse collaborazioni con varie testate giornalistiche e attualmente, oltre a scrivere, si occupa di comunicazione ambientale.
Ha pubblicato un saggio (“Verità e informazione. Critica del giornalismo contemporaneo”, Dedalo 2005), un libro per ragazzi (“L’avventura di Energino”, Erickson 2022) e, col collettivo Tersite Rossi, quattro romanzi (“È già sera, tutto è finito”, Pendragon 2010; “Sinistri”, e/o 2012; “I Signori della Cenere”, Pendragon 2016; “Gleba”, Pendragon 2019) e due raccolte di racconti (“Chroma. Storie degeneri”, Les Flâneurs 2022; “Pornocidio”, Mincione 2023).
Il suo primo romanzo da “solista” è “Il predatore” (Bottega Errante Edizioni 2024), letto e recensito qui per Thriller Life da Ketty Marchese.
Marco Niro ha accettato di rispondere alle nostre domande:
Thriller Life: Il romanzo inizia con “C’era una volta …” utilizzando toni quasi fiabeschi e un impianto narrativo che evoca un mondo lontano e incantato che sembra provenire dai libri per bambini. Perché questa scelta che sembra essere in aperto contrasto con l’evoluzione della storia narrata
Marco Niro: Perché volevo partire dalla descrizione di un contesto il più possibile idilliaco, quale all’apparenza è il piccolo borgo di montagna nel quale la vicenda è ambientata.
Come nelle fiabe, tutto, all’inizio del romanzo, pare azzurro e rosa, tutto è scintillante, tutto è pulito, ordinato, impeccabile. Partendo da un’atmosfera del genere, lo straniamento del lettore, quando si troverà di fronte a ciò che si nasconde dietro alle apparenze, sarà totale, fortissimo.
Già dopo poche pagine la narrazione passerà, in un crescendo inesorabile, dai toni fiabeschi a quelli inquietanti e cupi del noir e del thriller. Credo che a un romanzo, soprattutto un romanzo di genere, i contrasti facciano molto bene: più ce ne sono, e più sono forti, più la storia avvince.
TL: Il primo personaggio che incontriamo leggendo è Thor, un orso che non sa di essere Thor e che vive pigramente la sua vita. Nella sua ideazione quanto hanno influito i recenti e tristemente noti fatti di cronaca?
Marco Niro: Se ti riferisci ai fatti tragici accaduti in Trentino nella primavera 2023, quando un ragazzo ha perso la vita dopo l’aggressione di un orso, devo risponderti che non hanno influito per niente, dato che il romanzo, a quell’epoca, era già stato scritto. L’editore mi è testimone: ho consegnato la bozza nel 2021, che poi nella sostanza non è più cambiata fino alla pubblicazione del gennaio 2024. Alcuni di quelli che han già letto il romanzo faticano a crederci, altri mi scrivono chiedendomi se sono un veggente. Nulla di tutto questo.
La conflittualità tra uomini e orsi appariva già chiara da tempo, da ben prima dello scorso anno. Thor, personaggio non umano del romanzo, è un orso confidente, come lo sono diventati tanti in questi anni di errata o mancata gestione della loro presenza in Trentino, il posto in cui vivo.
Non sono stati impiegati i cassonetti anti-orso, per esempio, e alcuni orsi, molto pochi in verità rispetto alla popolazione totale, hanno iniziato a trovare comodo spingersi fin dentro ai paesi per trovare del cibo. E se un orso diventa confidente, può rappresentare un problema.
Inoltre, è mancata completamente l’informazione nei confronti della popolazione e dei turisti, un’azione per spiegare che, dove ci sono gli orsi, certe cose non si possono fare.
Questo è accaduto perché, quando gli orsi sono stati reintrodotti in Trentino, con un progetto indubbiamente meritorio e valido dal punto di vista scientifico, taluni, in genere gente attenta solo al proprio tornaconto politico ed economico, hanno pensato bene che si potesse presentarli come gli animali buoni dei cartoni animati, come i peluche presenti in tante camerette del mondo, come un’attrattiva turistica.
Salvo poi accorgersi, negli ultimi anni, che gli orsi non sono buoni. Non sono nemmeno cattivi, se è per questo. Si tratta semplicemente di animali selvatici che svolgono un ruolo prezioso nella conservazione della biodiversità: sta a noi tutelarli e rapportarci a loro correttamente.
Ma purtroppo non è stato fatto, ci si è lasciati andare all’isteria, si è gridato alla bestia assassina, e i soliti noti hanno battuto cassa costruendoci il proprio successo elettorale. Tutto questo mi è parso uno spunto formidabile per scrivere un romanzo, e così è nato “Il predatore”.
TL: Tra i diversi personaggi che si succedono nella narrazione, spicca la figura di don Ruggero, uomo dalla fede particolare. A chi ti sei ispirato per la sua creazione e quale messaggio vuoi comunicare attraverso la sua persona ?
Marco Niro:
Don Ruggero è un prete ribelle che, dopo aver combattuto la mafia in Sicilia dando fastidio agli amici degli amici, è stato esiliato dalle gerarchie ecclesiastiche e mandato lontano, sulle Alpi, e lì, da un giorno all’altro, ha perso la fede, perché si è trovato di fronte a un male inatteso, più subdolo di quello mafioso, più difficile da comprendere e persino da scorgere.
Non ha però trovato il coraggio di confessare il suo smarrimento e quindi continua a indossare l’abito talare, da impostore. Per questo è un uomo tormentato, roso dal senso di colpa. Sarà proprio questa sua condizione a trasformarlo in uno dei personaggi chiave della vicenda. Nel costruire questo personaggio non mi sono ispirato a nessun prete in particolare, attingendo piuttosto al topos letterario dell’antieroe, di chi è stato sconfitto dalla vita e messo ai margini dopo aver provato a ribellarsi alle angherie dei potenti. Peraltro don Ruggero non è il solo: di antieroi, “Il predatore” è pieno.
TL: “Pensate forse di essere le sole creature di Dio a questo mondo? Dio ha creato ogni cosa. Ogni specie vivente è figlia di Dio tanto quanto l’uomo. Ma molti ormai hanno relegato la natura al ruolo di ambientazione per qualche serie TV o per qualche documentario…”. Qual è il tuo rapporto con Dio e con la religione?
MN: Sono ateo. Col tempo, però, ho imparato che a contare non è, di per sé, la presenza o l’assenza di fede, ma ciò che la presenza o l’assenza di fede induce a fare, i comportamenti che ne conseguono.
Accoglienza, solidarietà, impegno e coscienza civile: tutto questo può essere presente, o assente, tanto in chi ha fede quanto in chi non ce l’ha.
Se la fede spinge a ritenere, correttamente, che l’uomo non è una specie superiore alle altre, né quella che ha diritto di considerare la natura come un un forziere da saccheggiare all’infinito, ben venga. Ed è questo che, nel romanzo, don Ruggero capisce, è questo che lo spinge, proprio quando ha smesso di credere in Dio, a evocarlo affinché i cosiddetti fedeli comprendano che a pensarla in tal modo, a considerarsi una specie superiore alle altre, non rispettano più quanto Dio dovrebbe aver loro insegnato.
TL: Tra i tanti temi di rilevanza sociale trattati nel romanzo c’è quello che riguarda il rapporto tra genitori assenti, perché presi a rincorrere carriera e fama, e figli. Pensi che la fragilità di molti adolescenti oggi dipenda proprio dall’assenza dei punti di riferimento familiari? In una società che va sempre più veloce, che trascura i valori della famiglia, retta da politici che talvolta appaiono senza scrupoli, quali sono gli strumenti di cui possono avvalersi i giovani per cambiare le cose?
Marco Niro: Il rapporto tra genitori e figli è centrale nel romanzo, dove in particolare vediamo due famiglie disintegrarsi, ciascuna in modo diverso, sotto i colpi dell’incomunicabilità e dell’egoismo. La famiglia, piaccia o meno, è il primo nucleo sociale, e se qualcosa va storto lì, poi va storto anche altrove. Ai genitori di oggi i figli dovrebbero dire: “Amami e dimmi di no”. Invece, ormai, succede per lo più esattamente il contrario. I genitori dicono troppe volte di sì, e così facendo non dimostrano di amare i propri figli, anche se credono il contrario.
Distratti dai like sui social, dal flusso digitale che ci sommerge per 24 ore al giorno, ci dimentichiamo che amare un figlio non significa dirgli di sì e metterlo davanti a un monitor così smette di rompere, ma dirgli di no e passare del tempo con lui. Parlarci, provare a capirlo. Tra genitori e figli si sta aprendo una voragine, un abisso digitale sempre più difficile da colmare.
Dal familismo amorale che è sempre stato ed è ancora imperante in Italia, tale per cui conta solo la famiglia e gli altri si possono calpestare, si sta passando all’amoralità familiare, tale per cui addirittura tra familiari si è smesso di comunicare, solidarizzare, amare. Stiamo diventando delle monadi, sole e tristi, con uno smartphone in mano.
TL: Perché hai scelto di trattare queste tematiche proprio all’interno di un thriller?
MN: Perché penso che la narrativa di genere acquisti un senso soprattutto se la si usa per indagare il reale. Il racconto fine a se stesso, per quanto bello, per quanto cesellato, per quanto abbia tutto quanto al posto giusto in termini di ritmo, scrittura, struttura, resta povero se non introduce al suo interno la realtà allo scopo di metterla in discussione. D’altra parte, credo che il motivo per cui certi saggi e certe inchieste giornalistiche, meritori nell’indagare il reale con spirito critico, non incidono e non rimangono nella memoria di lettori e spettatori, e spesso nemmeno ci arrivano, sia proprio l’assenza della dimensione narrativa.
L’uomo si distingue dalle altre specie sostanzialmente per questo: è l’animale che racconta storie, e che le ascolta. Se vogliamo capirci, se vogliamo essere comunicativi, dobbiamo narrare, dobbiamo creare personaggi, trame, incastri, colpi di scena. Altrimenti ci annoiamo.
TL: Nel romanzo sono presenti diversi binomi: uomo/natura, natura/animali selvatici, animali selvatici/uomo. Di questi, qual è quello che più ti rappresenta e senti affine alla tua di natura?
Marco Niro: Sono tutti decisivi, fanno parte dello stesso discorso.
Dobbiamo uscire dall’antropocentrismo che per secoli ha fatto così tanti danni, che ci ha portati ormai sull’orlo del baratro, a un passo dalla catastrofe climatica ed ecologica. Dobbiamo tornare a considerarci una specie fra le altre, come facevamo in altre epoche, e a pensarci come parte della natura, e non come qualcosa di esterno, se non proprio estraneo, a essa.
Amitav Ghosh, nel suo importante saggio “La grande cecità”, ha invitato gli scrittori di tutto il mondo a introdurre l’elemento non umano nei loro romanzi e nei loro racconti, a trasformare gli animali e persino le piante in personaggi di una storia, a tentare il difficile compito di acquisirne il punto di vista. “Il predatore”, per quanto racconti soprattutto di uomini e di rapporti fra uomini, si apre con un personaggio non umano, col mio personale tentativo di raccontare adottando il punto di vista di un orso. “Orso” è anche la prima parola del romanzo, come pure l’ultima. È in questo modo che, nel mio piccolo, ho provato a raccogliere l’appello di Ghosh.
TL: Prima di lasciarci, quale messaggio o augurio vorresti inviare ai lettori di Thriller life?
Marco Niro:
Auguro loro di leggere più thriller che parlino di animali, e anche di piante, e di comprendere in tal modo lo straordinario potenziale di tensione e suspense che può esserci dietro a una storia fatta anche di personaggi non umani.
Ringraziamo l’autore per la disponibilità.