Carlo Piano, Il torto e Il Premio Scerbanenco

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Carlo Piano: Il torto, diciassette gradini verso l’inferno

Al Noir InFestival, a Milano, è stato proclamato il vincitore del Premio Scerbanenco, che dal 1997, in accordo con la famiglia del celebre scrittore, elegge la miglior opera narrativa italiana dell’anno, nell’ambito del genere noir: un appuntamento imperdibile per gli amanti del genere.

Carlo Piano con il suo Il torto: Diciassette gradini verso l’inferno, ha vinto il Premio dei lettori come migliore romanzo noir.

Thriller Life lo ha intervistato e recensito il suo libro.

Chi era Donato Bilancia? Ladro e gentiluomo alla Arsenio Lupin, nottambulo della suburra genovese, giocatore incallito ma fedele all’azzardo della parola data, Walterino, il più feroce assassino che il Bel Paese ricordi dai tempi del mostro di Firenze. Un bambino che andava bene a scuola e che prese una china storta. Donato Bilancia detto Walter resta un caso senza spiegazione. Enigma ed emblema di quella banalità del male che, come Iago dell’Otello, nella sua evidenza, non risponde. In questo raggelante romanzo, Carlo Piano ricostruisce nei dettagli la vita di quest’anima dannata, di questo oscuro assassino, senza mai cedere a un facile, morboso voyeurismo; indagando senza preconcetti e con tenace coinvolgimento nelle pieghe, nelle motivazioni, nei deliri di questa mente feroce.

Responsabile di diciassette omicidi. Come il cannibale Jeffrey Dahmer ma nel giro di appena sei mesi. Un semestre immerso nel sangue. Il cosiddetto serial killer dei treni venne catturato venticinque anni fa e nella primavera del 2000 condannato a scontare tredici ergastoli per i diciassette omicidi dei quali si dichiarò colpevole. Questa è la sua storia, articolata nei diciassette drammatici momenti che ne suggellarono il destino.

Diciassette gradini per scendere precipitosamente al male, come in una bolgia. Dal furto all’omicidio con movente, dall’assassinio per vendetta all’omicidio seriale alla rinfusa, fino alla profanazione del cadavere di una ragazza della quale neppure conosceva il nome.

Diciassette abomini che, una volta assicurato alla giustizia, gli costeranno il carcere a vita. Uscirà solo una volta, con un permesso di qualche ora, per andare a salutare i genitori sepolti a Nizza Monferrato. Dietro le sbarre prese la laurea, lui che aveva a stento finito di leggere l’abbecedario. Infettato dal Covid morirà poco prima di Natale del 2020, solo come un cane, in una cella infestata dalle ombre, dopo aver rifiutato le cure. Si rifugiò nella religione? Forse baluginò l’idea. Si pentì? Era folle o solo sopraffatto dal rancore? Donato Bilancia detto Walter resta un caso senza spiegazione.

Come Virgilio fa da guida a Dante nella più famosa catabasi della nostra letteratura, così Carlo Piano accompagna il lettore in un viaggio negli abissi dell’inferno. Ma non c’è bisogno, in questo caso, di oltrepassare i confini che separano il mondo dei vivi da quello dei morti, il percorso è tutto terreno: è, per dirla alla Calvino, ‘l’inferno dei viventi’.

Sprofondiamo in questa voragine, scendendo “diciassette gradini”, tanti quanti sono stati gli omicidi commessi da Donato Bilancia nel corso di appena sei mesi, tra l’ottobre del 1997 e il marzo del 1998. Esaminando verbali, testimonianze, deposizioni, perizie, conti, carte e documenti di ogni genere, Carlo Piano ne ricostruisce con precisione certosina la cronistoria, ma nel tentativo di capire le motivazioni profonde che li hanno determinati, allarga la sua indagine anche agli anni precedenti e a quelli successivi.

Ci avventuriamo così tra bolge e gironi sporchi di sangue e disseminati di peccati insanabili: il vizio del gioco, l’ira, l’inganno, la lussuria, la violenza nelle sue forme più crudeli.

Nel prologo affermi che, dopo essere venuto a sapere della morte di Donato Bilancia, hai sentito l’esigenza di recuperare i dettagli del caso che avevi seguito al momento dei fatti e che poi avevi dimenticato (complice anche il rifiuto del killer di rilasciarti un’intervista). “Un’ossessione sublime e morbosa”, la definisci, da cui speravi di liberarti scrivendo questo libro. Ad oggi, puoi dirci se in effetti sei riuscito a prendere le giuste distanze da questa vicenda e a porti di fronte ad essa in modo diverso rispetto al passato?

Il fatto che ne stiamo parlando è la lampante dimostrazione che non sono riuscito a liberarmi di lui e credo che non riuscirò mai a esorcizzarlo. Quando lo incontrai in carcere a Chiavari non mi colpì tanto il fatto che parlava poco quanto cosa mi ha detto. Mi domandava cosa ci facesse in prigione con tutti quei delinquenti. Lui che aveva ucciso diciassette persone non si considerava un delinquente. Ti rendi conto? E poi descriveva i fatti come se lui non fosse il protagonista ma uno spettatore. Non si riconosceva una colpa. Quando è morto in carcere il ricordo mi ha scalato la mente come un’onda di marea acida. Mi sono sentito costretto a rileggermi novantamila pagine di verbali, esami autoptici, perizie psichiatriche e balistiche. Ho scavato nei ricordi e sono tornato a calpestare i luoghi dove ha colpito. I luoghi non sono silenti ma parlano: laddove sono accaduti certi fatti si colgono persistenze sinistre anche a venticinque anni di distanza.

Si parte con il “girone della vendetta”: a cadere per primi sono due personaggi che hanno tradito la fiducia di Donato Bilancia, umiliandolo al punto da scatenarne l’istinto omicida. E’ lui stesso che definisce l’episodio in termini di “tradimento”, “trauma”, “infamata”; questa è “la scintilla”, l’epicentro del terremoto interiore che trasforma Donato, detto Walterino, fino ad allora ‘solo’ ladruncolo e incallito giocatore d’azzardo, in spietato assassino seriale.

Parlaci del significato del titolo: Il torto è l’oltraggio perpetrato dal killer ai danni delle vittime? E’ un riferimento generale al fatto che Bilancia ha sempre avuto il cruccio di essere stato maltrattato e tradito? Oppure si riferisce in particolare all’umiliazione da lui subita ad opera di una delle poche persone considerate “amiche” e che rappresenta il punto d’origine di tutti i diciassette delitti? Consideravi un torto nei confronti di te stesso il fatto di non aver scritto a suo tempo questo libro?

Ci sono tanti torti sia subiti che arrecati nella storia paradossale di Bilancia. Un personaggio che sembra uscito da una tragedia di Sofocle. Feroce, fragile e contraddittorio. Il torto a cui mi riferisco nel titolo è principalmente quello che sfarina il suo fragile narcisismo e scuote il suo già precario equilibrio psichico provocandone il deragliamento della mente. Comincia a uccidere perché si sente tradito dai biscazzieri che considerava suoi amici. Ecco mi chiedo: si può cercare l’amicizia in un’ambiente come quello del gioco d’azzardo clandestino? Già è difficile incontrarla nella vita normale. Bilancia era un crogiuolo di contraddizioni che, a un certo punto, sono tracimate scatenando la sua vendetta nei confronti del mondo che lo aveva, secondo lui, bistrattato. Le prostitute, le donne scelte a caso sui treni, i metronotte, i cambiavalute, il benzinaio che si rifiuta di fargli credito. Il torto è l’ultima goccia sulle sue frustrazioni latenti.

Da quel momento, Bilancia è una scheggia impazzita: guidandoci nel “girone del cattivo sangue” e in quello “della matta bestialità”, Carlo Piano ci mostra il lato più oscuro della psiche del killer. Un rancore cieco e sordo (il cattivo sangue) concepito nei confronti dell’altro sesso lo spinge ad uccidere quattro prostitute di diversa nazionalità; la violenza (la matta bestialità), che lo trasforma in una belva senza senno, lo porta ad assassinare due donne qualsiasi, incontrate in treno per un gioco crudele del destino. Ciò non vuol dire che gli uomini siano risparmiati: cambiavalute, metronotte, vigilanti, benzinai, tutti travolti dallo stesso furore, dal medesimo imperativo interiore che gli impone di eliminare qualcuno, uno qualunque.

Ad armare la mano del mostro sembra essere infatti un guizzo momentaneo, un impulso irrefrenabile che lo fa colpire a caso, nel mucchio. Più volte lui stesso lo definisce “un patatrac”. Non solo, dunque, manca un movente veramente valido a spiegare in modo esaustivo questi delitti (il “programma”), ma manca soprattutto il filo conduttore, quel minimo comune denominatore che unisce in un modo o nell’altro tutti i crimini di un classico serial killer.

E non basta: a raggelare il lettore di ieri e di oggi è anche l’assoluta tranquillità con cui il colpevole confessa, narra, descrive questo “schiribizzo” che lo prende all’improvviso di dare la caccia a qualcuno, di farlo fuori. Walterino, insomma, “avrebbe messo in difficoltà anche i profiler di Quantico”.

Nel libro, tra le altre testimonianze, riporti anche diversi pareri di psichiatri che hanno lavorato intorno alla “fossa buia della sua mente”: sdoppiamento della personalità o disturbo dissociativo dell’identità; mente lucida, sana e consapevole che ha agito senza un vero e proprio movente (“uccide per uccidere”); “cagionevole narcisismo” mosso da un “frustrante bisogno di approvazione”; sindrome di Pollicino: a conti fatti, la tua idea al riguardo qual è? Quale di queste interpretazioni si avvicina di più alla verità che hai potuto conoscere attraverso il certosino lavoro di ricostruzione della vicenda? Oppure Donato Bilancia detto Walter resta veramente un caso senza spiegazione?

C’è una domanda che mi ha torturato lungo tutte le pagine del libro. Cosa ha scatenato la violenza in un uomo di quasi cinquant’anni che, certo, era un ladro e un balordo, ma non aveva mia fatto male a nessuno? Questo è l’enigma a cui gli psichiatri hanno cercato di dare una risposta. Lo stesso ho provato a fare io nella mia biopsia letteraria di Bilancia. Il tribunale l’ha giudicato capace d’intendere e di volere condannandolo a tredici ergastoli. Questo è un fatto. Non so se sono completamente d’accordo però è una questione discutibilmente complessa. Era lucido, organizzato, pianificatore ma alcuni omicidi non sono spiegabili se non con un’eruzione di follia. Ha ucciso due donne sui treni che neppure conosceva. Scelte a caso. Non per derubarle e neppure per violentarle, solo per la pulsione che d’improvviso gli martellava le tempie. Non ho verità in tasca ma ho cercato, indagando con rispetto nella vita del serial killer, una traccia che possa guidare il lettore nel farsi un’idea. È giusto che ognuno si dia una propria spiegazione senza preconcetti.

Vittorino Andreoli ha dichiarato che “Donato Bilancia è stato il più grande criminale del ‘900 italiano”. Sei d’accordo?

Non posso che essere d’accordo con il professor Andreoli. Nessuno prima di Bilancia in Italia aveva assassinato in modo così prolifico e frenetico. Neppure il mostro di Firenze, ammesso e non concesso che dietro i suoi delitti ci sia un singolo responsabile. Diciassette vittime in sei mesi sono quante quelle che ha ucciso Jeffrey Dahmer, il famigerato cannibale di Milwaukee, però nel giro di tredici anni. Ci sono anche altre particolarità che lo rendono un caso di studio unico: cambia in continuazione la tipologia dei bersagli, il modus operandi, il movente che non sempre è comprensibile. Uccide per uccidere. E poi c’è anche la sua apparente normalità: un tipo simpatico, cordiale e mimetico. Ciò gli ha permesso di sfuggire a lungo alla cattura. La banalità era la sua forza. Gli investigatori non avevano capito, e forse con i mezzi investigativi del tempo non potevano, di trovarsi davanti a un unico serial killer che spargeva sangue in Liguria e Basso Piemonte.

Oltre che alla personalità e alle vicende biografiche del killer, il libro dà spazio alla ricostruzione della vita delle vittime e delle loro ultime ore su questa terra. Questa attenzione è figlia del ‘dovere di cronaca’ che alberga in te in quanto giornalista o è anche un modo per onorarne la memoria, per restituire loro una, seppure flebile, voce?

Certamente è un mio modo per onorarne la memoria. Non servirà a riportarle in vita ma è comunque importante ricordare. Prima dicevo che ho scavato con rispetto nella vita di Bilancia ma il massimo del rispetto va usato soprattutto nei confronti innocenti che ha ucciso. Non importa se prostitute, transessuali o madri di famiglia. Ognuno di loro aveva amori, amici da incontrare, sogni che si sono infranti contro un proiettile calibro 38. Una storia terribile e oscena. La vita è sempre sacra, così come la violenza non è mai forza ma debolezza.

Il pensiero dell’assoluta casualità con la quale Bilancia sceglieva chi eliminare (“le pescavo come carte dal mazzo”), rende tutti i delitti assolutamente e ugualmente agghiaccianti. Ma tra le diciassette uccisioni, ce n’è una che ti ha turbato o impressionato più delle altre? Perché?

Senza voler fare una assurda “hit parade” delle vittime ci sono certamente le due donne sui treni che hanno lasciato figli piccoli e orfani. Sembra che in carcere se ne sia pentito lui stesso. Però il delitto umanamente più impressionante, secondo me, è quello della prostituta ucraina Ljudmyla. Non solo per colpa di Bilancia. Tre mesi dopo l’omicidio avvenuto nel marzo 1998 sulle alture di Pietra Ligure la salma della ragazza era ancora parcheggiata in una cella frigorifera. La sua famiglia in patria non la voleva indietro e in Italia nessuno si era preoccupato di darle sepoltura. Tristissimo. Ci ha pensato un parroco di provincia, don Luigi, a indignarsi e a celebrare un funerale usando le offerte fatte dai fedeli. Ci sono preti che sorprendono e sanno cosa significa pietà.

Se i ‘gironi’ sono i capitoli che ricostruiscono i delitti, quelli intitolati ‘bolge della memoria’ danno spazio alla vita di Bilancia prima e dopo i crimini. Ripescandoli dagli anni dell’infanzia, vissuti nel quartiere popolare di S. Fruttuoso, a Genova (una Genova anch’essa, a tratti, infernale), l’autore ci presenta la famiglia, gli amici, i ‘maestri’ (soprattutto Franco, che gli ha insegnato a rubare in modo sopraffino), le relazioni fallite, ma anche la tendenza all’ostentazione del lusso, le frustrazioni, i complessi, i dolori (la morte drammatica dell’unico nipotino), la continua oscillazione tra l’autoesaltazione e l’autocommiserazione.

Questo è anche lo spazio delle perizie, delle sentenze e anche (l’ultima) di un lungo dialogo tra Bilancia ormai in prigione e una delle guardie carcerarie, poi intervistata dallo scrittore.

In queste malebolge, infatti, l’autore lascia spesso la parola all’assassino. Come se stesse raccontando di un altro, come se stesse dando conto di un film che ha visto, lo ascoltiamo increduli arrivare addirittura, con una profonda capacità di autoanalisi, ad ipotizzare l’esistenza di due metà che gli abitano dentro, una buona, di nome Bila, e una grama, chiamata Ancia, che a un certo punto ha preso il sopravvento sull’altra, riducendola a mera spettatrice di tutte le atrocità (torna un richiamo a Calvino e al Visconte dimezzato).

Mi ha molto colpito l’appunto sul taccuino del professor Romolo Rossi: “Uno psichiatra impara di più leggendo Proust e Dostoevskij che un manuale, perché tratta con una realtà umana che la letteratura illustra meglio”. Poche pagine prima, avevi citato diversi libri che affrontano la tematica della personalità multipla (Poe, Stevenson, lo stesso Dostoevskij) e, in modo più o meno esplicito, hai disseminato in tutto il testo numerosi riferimenti letterari, a partire dall’Inferno fino ad arrivare alle donne schermo della poesia trobadorica. Quale funzione attribuisci alla letteratura, soprattutto in questi nostri tempi in cui non tanto la scienza, quanto la tecnica sembra prendere il sopravvento? Che lettore sei? E quali opere e autori hanno maggiormente contribuito a formare la tua personalità?

Bella domanda. Leggo molto e un po’ di tutto. Sono onnivoro. Leggere, secondo me, significa capire essendo parte attiva e non passiva. Significa farsi un pensiero proprio. Il mio libro preferito? Fammi pensare… da ragazzo mi ha sconvolto e cambiato la visione della vita Il deserto dei tartari di Dino Buzzati che è sublime nella sua desolante disperazione. Però forse il mio romanzo preferito è un classicissimo: Moby Dick di Herman Melville. Perché è un libro universale, che appartiene al mondo. La vastità del mare e quel piccolo mondo che ci galleggia dentro. Non si può non innamorarsene.

“Il torto” si è aggiudicato il “Premio Scerbanenco dei Lettori al miglior romanzo noir”. Nell’ultimo anno, il massacro del Circeo è stato oggetto di una serie tv e di un libro; il caso Elisa Claps è tornato alla ribalta grazie al podcast e alla docuserie di Pablo Trincia: il pubblico degli spettatori e dei lettori dimostra di gradire questo tipo di “prodotti” e li premia in termini di vendite e di ascolti. Perché, a tuo avviso, casi già risolti e più o meno lontani nel tempo suscitano ancora questo clamore e ottengono tanti riscontri?

Gli esperti nel campo siete voi… Comunque, penso che per affrontare certi argomenti e farne un’analisi veritiera sia necessario distaccarsene. Sull’onda dell’emozione si rischia di scrivere delle castronerie. Il tempo è invece un maestro che ci fornisce elementi fattuali e ci permette anche di leggere il periodo storico in cui i fatti si sono consumati. Citavi il massacro del Circeo che, per esempio, credo vada contestualizzato nel clima sociale e politico rovente che si respirava nella Roma di quegli anni. Io non sarei riuscito a scrivere subito dopo l’arresto di Bilancia Il torto: questa storia anche inconsapevolmente mi ha accompagnato per un lungo tratto di vita. Era dentro di me e lo avevo dimenticato. Si era incistata in un angolino nascosto e per finire in pagina aspettava solo che il tempo facesse il suo lavorio sulla mia coscienza.

Mai pentito, narcisista, bipolare, dissociato, in crisi di identità, malvagio, perverso, amorale, frustrato, bisognoso di attenzioni continue, malato, sano di mente, lucidamente folle, follemente lucido, “un assassino anonimo che uccide anonimi”: ‘il mostro della Liguria’ è stato questo e forse anche altro, un mistero, per tanti versi, ancora insoluto.

Dal precipizio in cui è caduto molto prima di morire di Covid nel 2020, come da quello dantesco, non si può risalire, ma solo continuare a sprofondare verso il centro della terra, perché non c’è possibilità di riscatto o di redenzione né per le vittime, né, tanto meno, per il loro aguzzino, il mefistofelico Donato Bilancia, novello Lucifero dei nostri tempi.

Prima di salutarci, quale messaggio o augurio vuoi lasciare ai lettori di Thriller life?

L’augurio sincero di un felice anno nuovo, innanzitutto. E poi l’augurio che è anche uno sprone a continuare a parlare di questi argomenti che, certo, non sono allegri e anzi spesso respingono, ma fanno parte della vita. Ci piaccia o meno. Voltarsi dall’altra parte non è mai una buona idea. Nel mio viaggio nella mente di Bilancia ciò che più mi ha angosciato è la presa di coscienza che la distanza tra noi cosiddetti normali e un cosiddetto mostro è molto più sottile di quello che crediamo. Spesso basta imboccare un bivio sbagliato o un neurone che chissà mai perché esce dall’orbita. Bilancia è cresciuto da ragazzo con Beppe Grillo che era suo dirimpettaio: uno è diventato una star e l’altro un serial killer. Come mai? Eppure, giocavano assieme a pallone, assieme mangiavano il gelato. Credo che la risposta stia proprio nel fatto che il thriller fa parte della vita stessa.

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