Loris Giuriatti e il suo ultimo romanzo tra storia e memoria

Loris Giuriatti vive a Bassano del Grappa, dove lavora come responsabile di un centro di formazione professionale e come guida ambientale escursionistica.

Per Rizzoli ha pubblicato: L’Angelo del Grappa 2021, Lo chiamavano Alpe Madre 2022, La perla del Brenta 2023.

Il romanzo “La tormenta di San Giovanni” edito da Rizzoli, 2024, è stato letto e recensito per Thriller Life da Alessandro Quadri Di Cardano Qui

Loris Giuriatti ha gentilmente accettato di rispondere alle nostre domande.

Thrillerlife: Prima d’inoltrarsi nella vicenda vera e propria, il lettore viene portato a Bologna, il 2 agosto del 1980, giorno della strage alla stazione. In una descrizione toccante degli eventi, tu dici: Morirono in più di ottanta quel giorno a Bologna. Morirono Andrea e Giuseppe, ma morì l’Italia e la sua spensieratezza d’agosto, morì la fiducia nelle istituzioni, morirono in troppi e tutti innocenti.

Vuoi spiegarci perché hai scelto di ripercorrere quegli eventi e cosa hai inteso con quella frase?

Loris Giuriatti: Ricordo la bomba di Bologna – all’epoca avevo dieci anni – come il momento esatto in cui mi si materializzò il significato della frase “lo strazio della morte violenta”.

Sono cresciuto nella campagna contadina Veneta, e non si può di certo dire che non ci fosse fin da piccoli l’occasione di confrontarsi con la morte come il naturale il ciclo della vita: il maiale scandiva l’arrivo dell’inverno e i polli della primavera, il loro sacrificio era per la nostra sussistenza e i genitori avevano l’obbligo morale di spiegare ai figli il rispetto verso questi animali, che venivano comunque macellati lontano dai nostri occhi innocenti.

Anche i parenti quando anziani e stanchi “andavano a trovare Dio” e i bambini venivano portati al rosario a salutare il defunto con la consapevolezza che l’espressione naturale del volto cereo era segno della loro serenità all’arrivo della morte dopo la lunga vita. Quel terribile atto spazzò via le mie consapevolezze e l’innocenza di bambino in un attimo, fu uno shock inaspettato, aggravato dal fatto che arrivò nel mese delle ferie, un momento dove tutto era leggerezza. Nei telegiornali dell’epoca, dove il dovere di cronaca spesso andava oltre il rispetto delle vittime, vidi in faccia una morte diversa da quella che avevo imparato a conoscere: violenta, innaturale, terribile.

Vidi l’allora presidente Pertini, un uomo tutto d’un pezzo, ex partigiano, che nel mio immaginario rappresentava l’Italia, piangere impotente al capezzale di due bambini, miei coetanei che morirono mentre stavano partendo per le vacanze. Fu in quell’esatto momento, seduto sul mio tappetto giallo piazzato nel mezzo del salotto, in una calda giornata di agosto, che capii che la morte non era una cosa solo da anziani e che nemmeno “il mio” presidente aveva potuto evitare la tragica fine di quei due bambini.

TL: Tra i temi narrati dal romanzo, c’è la difficile relazione tra Roberto e Giulio. Infatti, se da un lato hanno un legame famigliare forte, essendo cugini, dall’altro la vita li ha divisi, a causa di quella bomba che ha tolto loro l’innocenza. Perché hai deciso di introdurre questo elemento nel libro?

LG: Nella mia scrittura, c’è sempre una forte componente emotiva e autobiografica. Come dicevo, la Bomba, con la lettera maiuscola fece da perno nella mia infanzia, portandomi a una prima svolta: l’innocenza aveva lasciato spazio alla coscienza, alla realtà. Quando ne ebbi consapevolezza e la storia diventò qualcosa di più di una semplice passione, mi impegnai per capire di più di quella triste vicenda che non aveva ancora messo la parola fine dopo anni.

Roberto e Giulio, rappresentano chi è stato costretto a ricordare in interminabili udienze, chi si è sentito sempre di più, anno dopo anno, vittima senza giustizia. Più i processi andavano avanti e più le persone sopravvissute si sentivano quasi colpevoli di essere stati lì, di non aver preso il treno il giorno prima o a un orario diverso. Anime in pena che non riuscivano a cancellare quel ricordo che gli tormentava.

La memoria corta di tutti noi italiani ha fatto il resto, se chiediamo oggi a un ragazzo cos’è stata la strage di Bologna, molto difficilmente ci saprà dare una risposta.

TL: Il romanzo narra non di una, ma di due coppie di cugini: Roberto e Giulio da un lato, Don Guglielmo e Delio dall’altro. Perché hai scelto di parlare di persone unite da questo vincolo di parentela?

LG: “Lo ha detto mio cugino!” è sicuramente la frase più usata quando si vuole raccontare qualcosa che si è sentito dire al bar o letto in qualche free press o social.Se dici:” me lo ha detto mio padre, mia madre, mio fratello” è diverso, il cugino è quasi un’entità astratta posta nel limbo delle parentele.

Per i protagonisti del libro è diverso; entrambi le coppie di cugini sono fratelli mancati, la parentela conta poco, quello che conta è il legame. Dal punto di vista narrativo, per il lettore l’essere “solo” cugino rende più facile accettare la distanza e l’abbandono che si crea, per motivi differenti, in entrambi le coppie. Nel caso di Guglielmo e Delio ho voluto anche giocare con una somiglianza fisica in netta contrapposizione con i ruoli dei due cugini in quel particolare momento storico.

TL: Le due coppie di cugini, sebbene lontane nel tempo, appaiono per tanti aspetti simili. Cosa caratterizza, secondo te, queste due coppie?

LG: Mi diverte sempre molto fare dei paragoni tra personaggi attraverso i tempi, per dimostrare quanto a volte, i sentimenti non hanno né tempo né età. Sicuramente le due coppie di cucini sono legate da tanti “non detto” che si risolve spesso, anche ai nostri giorni con un allontanamento più o meno volontario.

Si è convinti che “lontano dagli occhi lontano dal cuore” possa ancora essere una massima vincente, ma non è così. l’anima si porta addosso un peso e prima o dopo lo deve scaricare. A volte viene in aiuto il fato, altre volte la volontà.

TL: La montagna non è solo lo sfondo nel tuo romanzo, ma una vera protagonista. Che ruolo gioca nella vicenda?

LG: Il monte Grappa è un massiccio anomalo. Le poche e scomode strade d’accesso non la rendono facile al turismo di massa, non ci sono impianti di risalita o attività turistiche, ma per chi va oltre le apparenze e sale fin quassù, comprende subito che questi luoghi sono magici.

La comunità del Grappa è un perfetto micro mondo pieno di storie da raccontare, un perfetto tutt’uno tra uomo e natura. Io non sono nato qui, ma ho avuto la fortuna di incontrare e parlare con tanta gente di montagna che mi ha fatto comprendere quando il Grappa sia vivo e capace di raccontare storie meravigliose. Se posso darmi un merito, l’ho saputo ascoltare e ora lo voglio raccontare.

TL: La relazione tra il “Vecio” e Paolo si mostra inizialmente molto difficile. Effettivamente, sembrano agli antipodi: da un lato un vecchio montanaro brontolone e dall’altro un giovane yuppie che viaggia in decapottabile. Eppure, superate le prime diffidenze, i due protagonisti si scoprono più simili di quanto non pensassero, non è vero?

LG: Paolo e il Vecio sono due poli opposti che inevitabilmente si attraggono. L’esperienza dell’uomo vissuto capisce prima del giovane Paolo che nella vita dello yuppie padovano manca la virtù della pazienza e decide di fare da nave scuola, da mentore. Certo, il suo metodo non è esattamente la sintesi di un trattato di pedagogia, ma darà i suoi “frutti” in tutti i sensi e non dico altro…

TL: Tra le ragioni che portano il “Vecio” e Paolo a diffidare l’uno dell’altro, c’è il fatto che rappresentano uno dei più antichi clivage della nostra società, quello tra città e montagna. Tu che da Padova ti sei trasferito sui monti, hai mai sentito questa diffidenza verso le persone di città? E a cosa è dovuta, secondo te?

LG: Vorrei risponderti che non è vero, ma non sarei sincero! Negli ultimi anni, lo vedo anche nel mio lavoro di guida, troppe volte si approccia la montagna solo come un luogo di villeggiatura e divertimento, dimenticando che la cura di molti luoghi è frutto di un grande impegno, che dura tutto l’anno, da parte delle persone che la abitano.

Dimenticare le regole principali dell’educazione, lasciare sporco, cercare di raggiungere luoghi mediamente difficili senza attrezzature adeguate crea il fenomeno “Merenderos”, termine usato dalla gente di montagna per indicare il turista cittadino sprovveduto. Come si può vincere questa diffidenza? In due semplici modi: con un comportamento attento e adeguato e soprattutto ponendosi in ascolto.

Mi ci sono voluti mesi, forse anni per conquistare la fiducia della gente di montagna e penso di esserci riuscito proprio ponendomi in loro ascolto. Ne ha giovato il nostro rapporto e soprattutto ne ha giovato la mia formazione, devo molto più ai loro insegnamenti pratici che a molti testi!

TL: Il libro porta i lettori a riscoprire i luoghi della Grande Guerra. Una tragedia immane, quella vissuta dai ragazzi d’allora, che fino a poco fa sembrava storia antica. Invece, purtroppo, torna d’attualità, tanto che in Ucraina abbiamo visto nuovamente gli uomini in trincea. Credi che la storia sia ancora maestra di vita?

LG: Il filosofo Ungherese Todorov riassume bene questo concetto: “Le pagine meno gloriose del nostro passato sarebbero le più istruttive se solo accettassimo di leggerle per intero”.

L’importanza della memoria trova forza nel coraggio di leggere la storia per intero. Quando mi trovo a chiacchierare nelle scuole, cerco sempre di non prendere una facile posizione dettata dal nostro innato nazionalismo o da retaggi culturali che abbiamo incisi nel DNA, cerco sempre di far ragionare i ragazzi “a volo d’uccello”, vedendo tutto dall’alto.

Non ho la verità in tasca, anzi, lungi da me solo a pensarlo, ma riuscire a non farsi condizionare dalla rabbia (e dai media) e provare ad avere un’opinione che deriva da uno studio di tutte le parti in causa, porterà un giorno l’uomo a capire l’inutilità della guerra.

Chiudo il libro con una frase che riassume questo mio pensiero: “grazie a voi, ragazzi del Grappa senza un nome, anime pure senza una tomba terrena. Guidate chi ci comanda a capire che una guerra non ha né vincitori né vinti se le terre conquistate sono sommerse dalle lacrime”

TL: Oltre ad essere scrittore, ti occupi di molti progetti divulgativi e pedagogici. Qual è il messaggio che vuoi trasmettere con la tua attività?

LG: Vorrei trasmettere la semplicità, da non confondere con banalità. La mia scrittura è semplice, adatta a tutti, racconto la grande storia dei piccoli uomini cercando di renderla fruibile, comprensibile, il più possibile onesta. Già arrivare a questo sarebbe un grandissimo successo.

I miei nonni hanno subito due guerre, i miei genitori hanno patito la fame, dobbiamo rendere giustizia ai loro sacrifici, alle ingiuste sofferenze che hanno patito, dando il massimo per creare una generazione più consapevole e attenta alle altre persone e al mondo che ci ospita.

Semplice, ma non banale è la frase che diceva sempre mia nonna quando guardava le disgrazie trasmesse dei telegiornali: “…e pensare che siamo qui solo di passaggio!”

TL: Prima di salutarci, quale messaggio o augurio vorresti inviare ai lettori di Thriller life?

LG: vorrei ringraziarvi tutti perché uno scrittore vive solo grazie alle persone che lo leggono.

Quando scrissi il mio primo Romanzo, fu una scommessa con me stesso, un azzardo. Se ne ho scritti altri è solo grazie a tutti voi chi mi avete incoraggiato e sostenuto. Ricevo ancora, quasi quotidianamente, messaggi da lettori sconosciuti che mi raccontano un momento della loro vita dove hanno provato un sentimento legato a un mio scritto, e questo per me è una gioia grande.

Un libro non salverà mai il mondo ma sicuramente aiuterà le persone a vivere con la consapevolezza che bastano piccole cose semplici per renderci felici.

Thriller Life ringrazia Loris Giuriatti per la gentilezza.

a cura di Alessandro, Alessia e Rosaria

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